martedì 12 marzo 2013

Céline e Pasolini, di Alessandro Vichi


BARDAMU ED IL RICCETTO


Perché la ricompensa della vita è la morte...
LOUIS-FERDINAND CÉLINE


A beneficio di quei lettori che trovassero criptico, quando non incongruente, il titolo che introduce le seguenti riflessioni, sembra opportuno e doveroso un chiarimento da parte dell'autore. In queste pagine si è voluto immaginare un possibile incontro tra il Riccetto, protagonista del romanzo Ragazzi di vita (1955), ed il più celebre, quanto lontano ed inatteso, Bardamu del Voyage au bout de la nuit (1932): audace accostamento tra i loro creatori, ovvero Pier Paolo Pasolini e Louis-Ferdinand Destouches – per la storia, non solo letteraria, Céline.
Esplicitate le fonti della suggestione, nel prosieguo della trattazione si contempleranno alcuni frammenti di due esistenze che, per quanto distanti l'una dall'altra, appaiono inequivocabilmente affratellate da una simile libertà intellettuale, nonché dai suoi contrappassi più mortificanti: l'incomprensione, l'emarginazione e la persecuzione che il consorzio umano spesso riserva a tale libertà.
Lungi, almeno negli intenti, da una dilettantesca e poco pertinente intromissione nell'ambito delle letterature comparate, si auspica affiorino, piuttosto, elementi utili per una riflessione sul nesso eziologico tra la marginalità riservata ad un artista e la portata 'democraticamente sovversiva' della sua opera: sino al riscatto, in morte, affidato a quell'universalità che sa trascendere le anguste miserie inflitte dalla vita.
Entrambi avidi studiosi delle teorie pionieristiche di Freud e Jung, tanto Céline quanto Pasolini devono a quei 'padri dell'Io' dei raffinati strumenti interpretativi, prezioso complemento della loro razionalità e sensibilità innate. 1 Sembrano testimoniarlo la centralità che ambo gli autori riservarono all'analisi del contesto famigliare di provenienza, dai cui irrisolti antagonismi, non solo banalmente edipici, emergerebbero suggestive quanto illuminanti affinità.
Cogliendo tra le innumerevoli pagine che gli dedicò, lo scrittore francese ricorderà così il genitore: “Era un grosso biondo mio padre, furioso per un nonnulla […] Ruotava gli occhi ferocemente, quando gli montava la collera.” 2
In una continuità che non potrebbe lasciare indifferente un attento lettore, da par suo confesserà il poeta italiano: “Tutta la mia vita è stata influenzata dalle scenate che mio padre faceva a mia madre. Quelle scenate hanno fatto nascere in me il desiderio di morire.” 3
Interessante notare, a corollario di ciò, come il ramo paterno di entrambi gli autori vantasse nobili origini, ed i rispettivi padri conservassero – pur negli opprimenti dissesti finanziari di uno status sociale che potrebbe dirsi di 'minuscola borghesia' – polverosi residui di anacronistica alterigia aristocratica, che sfociavano sovente in una violenta frustrazione, forse patologica, per l'inaccettabile amarezza della realtà quotidiana.
Il fondatore, nel Cotentin, del Casato dei Destouches – letteralmente 'Delle stoccate': nomen omen per il futuro scrittore – i quali potevano fregiarsi di uno stemma risalente al 1300, fu un tal Pierre des Touches, “Seigneur” di Montmartin-sur-Mer. La Casata si sarebbe poi divisa, nel XVIII secolo, in un ramo tedesco ed uno brètone. Fernand, padre dello scrittore, sposerà nel 1883 Marguerite Guillou, figlia di Céline Lesjean in Guillou, che con indubbia vocazione imprenditoriale da operaia era divenuta proprietaria di tre negozi ad Asnières ed uno a Parigi (nonché figura legata da reciproco odio al genero Fernand, almeno quanto amata dal nipote Louis-Ferdinand). 4
L'infanzia di quest'ultimo, nato nel 1894, avrà per cornice dominante quel Passage Choiseul dove la madre gestiva una bottega di merletti ed antiquariato, mentre il padre, fieramente eruditosi sino al diploma, era impiegato presso un'agenzia di assicurazioni. La malsana atmosfera di quelle brulicanti cittadelle commerciali rappresentate dai Passages, ritornerà vivida alla memoria lucidamente allucinata del romanziere: “Quanto a me, sono stato allevato al Passage Choiseul nel gas di duecentocinquanta becchi lucenti. Del gas e degli schiaffi, ecco quel che era, ai miei tempi, l'educazione. […] Oggi ci si preoccupa dei complessi dei marmocchi. Tutto da ridere!”. 5
Il distacco da quel 'nido' ben poco pascoliano, su cui viene incentrata gran parte del secondo romanzo, Morte a credito, si andrà consumando progressivamente dall'arruolamento di un appena diciottenne Ferdinand (evento magistralmente sublimato nel testo incompiuto Casse-pipe), sino all'ultima visione materna nel 1942, alla vigilia della fuga da Parigi: “La vedo ancora lasciarci come un povero cane abbandonato all'angolo dell'avenue Junot. Ma cosa potevo fare allora?”. Un interrogativo che avrebbe tormentato sino all'ultimo il dottor Destouches. 6
Paterno sangue aristocratico spettò in eredità anche a Pier Paolo Pasolini. Il nonno del poeta, Argobasto Pasolini Dall'Onda, aveva lasciato prematuramente orfano suo padre Carlo Alberto. Questi, dopo aver dissipato nel gioco e nel vizio i beni di famiglia, era partito come entusiasta volontario per la colonizzazione italiana della Libia, nel 1915: promosso sottotenente per meriti sul campo, avrebbe sposato con 'nozze riparatrici' Susanna Colussi, maestra di famiglia contadina originaria di Casarsa della Delizia, in Friuli. Dalla sua nascita, nel 1922, sino allo scoppio della guerra, la vita dello scrittore fu caratterizzata dai continui spostamenti legati alla carriera militare paterna, e da una condizione di relativa agiatezza economica, sufficiente a consentirgli di dedicarsi con profitto agli studi liceali classici onde poi conseguire, nell'immediato dopoguerra, la laurea in lettere presso l'Università di Bologna. Ma la più cupa povertà affliggerà in seguito il nucleo famigliare, che inizierà a risollevarsi con l'affermazione del poeta nella prima metà degli anni '50, grazie al successo del romanzo Ragazzi di vita e soprattutto alla intensa attività di sceneggiatore svolta in quei primi ed ardui anni romani.
Dunque un padre estraneo e nemico, quel Carlo Alberto Pasolini, prima in quanto rivale già sconfitto nell'amore materno (“mio padre era innamorato pazzo di mia madre ma in un modo sbagliato, passionale, possessivo”) e poi, dopo la vicenda giudiziaria per i fatti di Ramuscello, in quanto espressione privata, domestica, di quella pubblica riprovazione riservata all'omosessualità clandestina del giovane Pier Paolo (“un altro al mio posto si ammazzerebbe; disgraziatamente devo vivere per mia madre”). Sino alla morte, giunta come epilogo di una senilità ormai lungamente segnata dalla depressione e dall'alcoolismo (“'Non lo vedi che sto per morire' pareva mi dicesse. Ed io continuavo a essere duro ed evasivo con lui, sempre rimproverandogli le terribili sofferenze che aveva dato a mia madre e a me” – ammetterà lo scrittore tra tardivi rimorsi di figlio che, per altro verso, non risparmiarono neanche Céline). 7
Ma se il piccolo Pier Paolo trovò nella venerata madre Susanna, nonché nel caro fratello minore, Guido, scomparso durante la Resistenza, un riferimento ed un conforto affettivo che dovettero compensare, almeno in parte, i traumi provenienti dal dispotismo paterno, l'infanzia del figlio unico Ferdinand ci appare come un'interminabile permanenza da ospite sgradito; dove l'indigenza alimentava le marcescenti ambizioni del padre e la pavida inettitudine della madre, responsabili del costante stato di accusa che il bambino dovette percepire: tra ricatti affettivi, schiaccianti aspettative e vani avviamenti ad una carriera da commerciante, sino all'arruolamento ed all'invalidità rimediata insieme con le decorazioni militari. L'anelata laurea in medicina sarebbe giunta solo diversi anni dopo, anche grazie alla temporanea agiatezza conseguente al matrimonio con la figlia di un influente medico, il noto professor Follet, direttore dell'Ecole de Médecine di Rennes.
Tali nette variazioni su un tema comune di traumi precoci e definitivi, dota i due artisti di approcci solo apparentemente antitetici, cui è sotteso, a ben guardare, un non dissimile inappagamento filiale. Così avremo in Pasolini una idealizzazione materna che tra sublimazioni stilnovistiche trova un rifugio dalle derive incestuose (tanto in versi: “Sei insostituibile. Per questo è dannata / alla solitudine la vita che mi hai data”; quanto in prosa: “Lei crede veramente nell'eroismo, nella carità, nella pietà, nella generosità. E io ho assorbito tutto questo in maniera quasi patologica.”). Mentre in Céline la catarsi da una soffocante anaffettività sembra affidata al più beffardo e virile distacco cinico: “Era come un vecchio trabiccolo, il pianoforte della sventura che non suona più che note atroci...” dirà della madre, ironizzando ferocemente sul carattere e, insieme, sulla penosa zoppìa.
Entrambi saranno comunque gravati dall'opprimente fragilità di figure materne mai davvero capaci di protezione dalla minaccia dell'altro genitore, il cui sordo rancore si sarebbe puntualmente stemperato in disprezzo ed indifferenza – tipica evoluzione delle assillanti aspettative riposte su una prole la quale, avvertendone l'invasiva estraneità, non potrebbe che disattenderle. Entrambi subiranno madri la cui impotenza non potrà dirsi innocente quanto quella dei loro figli, la cui ipersensibile precocità critica vanificherà finanche il conforto dell'illusione.
Così il poeta italiano in Orgia: “Un padre che apriva bocca per emettere schifosi suoni di comando, reso torvo come un vecchio soldato dal vino e dalla mezza povertà […]. Una madre, incosciente e lontana come un uccellino, che apriva bocca per difendersi o piangere o protestare inopportunamente”.
A fargli eco, l'autore di Mort à crédit: “Mia madre si guarda anche dal raccontar come lui se la trascinasse dietro, Auguste, per i capelli, nel retrobottega. Dice soltanto che vivevamo alle strette ma che ci volevamo un bene immenso.”
Concludendo questo excursus dalle innocenti velleità psicoanalitiche, si potrebbe ipotizzare che la 'diseducazione sentimentale' di quelle famiglie abbia fortemente sospinto i figli a legare la propria opera ed esistenza alle sorti dell'umanità più indifesa, quegli oppressi dimenticati, o evocati solo dalla retorica di una borghesia che, in Pasolini come in Céline, fu crudele matrigna non meno che in Leopardi.
Scrive la biografa céliniana Alberghini: “Vivendo con dei commercianti il piccolo Louis impara presto anche a conoscere coloro dai quali dipende il benessere della famiglia e che Marguerite [la madre] considera un po' come Dèi dispensatori di favori: i Ricchi. Il suo odio per il potere della ricchezza e della grande finanza nascerà dall'umiliazione di quegli anni”.
Specularmente, nel suo Pasolini Requiem, Schwartz: “Il ragazzo che non poteva permettersi di andare dal barbiere perché non aveva le cento lire necessarie, che vedeva il padre mantenuto poiché con l'inflazione la sua pensione andava svanendo e Susanna prezzolata per prendersi cura dei bambini di altre famiglie, non avrebbe mai dimenticato né perdonato”.
Due figli, tout court unici, di una borghesia 'piccola piccola' (irrinunciabile, qui, il richiamo al capolavoro di Monicelli) che, come naviganti danteschi, “per seguir virtute e canoscenza” prestarono ascolto a quel “canto popolare”, già morente nell'orizzonte della Dopostoria borghese, levatosi da coloro “che non mi sono fraterni, eppure sono / fratelli proprio nell'avere / passioni di uomini / che allegri, inconsci, interi / vivono di esperienze / ignote a me”. 8
L'uno tenterà di riscattarli mediante l'economia politica marxista, l'altro mediante una scienza medica devotamente fedele al giuramento di Ippocrate; ben consci, inoltre, che celebrare quel popolo in letteratura avrebbe imposto di risciacquare i propri panni nel dialetto di borgata come nell'argot di banlieue: due universi linguistici percorsi da un odio tanto povero di coscienza di classe quanto ricco di vitale creatività. Sebbene Céline, non è superfluo ribadirlo, si distinguerà per non avere mai ceduto a certa mitizzazione della povertà e della sofferenza, quali fattori redentori della crudeltà umana, a suo giudizio innata; né si lascerà mai sedurre politicamente da quelle “belle bandiere” che ancora oggi tentano di proporsi quali numi tutelari degli eterni esclusi dalla tavola imbandita del Capitalismo. Così, respingendo le seduzioni della sinistra francese e la sua fervida idolatria del modello rivoluzionario bolscevico, l'autore del Mea culpa replicherà: “Il guaio in tutto questo è che non esiste il popolo nel senso preciso in cui l'intendete, non ci sono che degli sfruttatori e degli sfruttati, ed ogni sfruttato non chiede che di diventare sfruttatore. Non capisce altro. Il proletariato eroico egualitario non esiste. E' un sogno vuoto. […] Il proletario è un borghese fallito.” 9
Una borghesia matrigna dalla quale, tuttavia, i due scrittori mai sapranno recidere del tutto i legami. Sembrano confortare questa conclusione sia il rapporto con i vari editori che l'atteggiamento verso i più prestigiosi premi letterari – per quanto Céline come Pasolini abbiano sempre perorato la propria causa dichiarando di considerarli strumenti e non fini. Ma riesce difficile non vedere ambizioni da dotato studente di ottime letture, dietro l'amaro che dovettero masticare entrambi, nel caso del Goncourt per il Voyage (“Il premio Goncourt è fallito. E' un affare tra editori. […] Ma me ne è rimasta addosso la volgarità, la grossolanità, l'impudenza di tutto questo affare.”), come dello Strega per Una vita violenta (“Forse lei, come editore, qualche mossa può farla. E' la prima volta che le chiedo qualcosa del genere: sono molto confuso e vergognoso...”).
Quando invece si troveranno ad esplorare il cuore pulsante del Capitalismo occidentale, l'ottica del viaggiatore europeo, che ci si attenderebbe culturalmente compassata, nel francese divergerà sensibilmente dall'italiano.
Dinanzi alla verticalità della capitale gotica del Nuovo Mondo, New York, visitata nel 1925, scriverà Céline: “In Africa avevo certo conosciuto un tipo di solitudine assai brutale, ma l'isolamento in quel formicaio americano aveva qualcosa di più angoscioso ancora. […]”; nonché, a complemento, sui modelli culturali americani: “Voi parlate di gaiezza, io non conosco niente di più straziante, di più sinistro dell'America, questo Paese assolutamente sprovvisto di vita interiore dove vivono esseri che non suppongono neppure il punto sensibile organico della nascita delle cose.” 10
Impressioni distanti non soltanto cronologicamente dai resoconti di Pasolini, che risalgono alla metà degli anni '60: “Una cosa che mi sorprende della vostra città è il profondo umanesimo, la facilità che ci può essere nei rapporti tra persone. Come a Napoli, in un certo senso. Ho persino la strana sensazione di essere già stato qui.” 11
Tornando ad indagare le affinità, potremmo parlare di due primi della classe, per talento ed appassionata applicazione, che a distanza di trent'anni raccolsero l'uno l'intuizione dell'altro palesando quale subdola palestra d'obbedienza sociale fosse la scuola dell'obbligo: equivalente intellettuale del lavoro nei campi ed in fabbrica, l'istruzione gratuita ed obbligatoria delle masse popolari concretizza, secondo il dottor Destouches, un chiaro intento di paternalistica demagogia che risalirebbe già all'Illuminismo. Aggiunta al suffragio universale, ai quotidiani ed ai grandi partiti di massa, l'educazione scolastica concorre ad un articolato inganno di attiva partecipazione democratica, perpetrato ai danni di milioni di semianalfabeti: sudditi ribattezzati cittadini, cui neppure la patriottica carneficina di due guerre mondiali avrebbe strappato il velo dagli occhi.
Disserterà così Céline: “Grazie all'istruzione che raggela, razionale e scontata... Gli scolari non faranno che 'pensarla' la vita... e non la sentiranno mai... La scuola deve divenire magica, o sparire punto e basta. L'infanzia è magica. L'infanzia diviene amara e cattiva. E' lei che ci condanna a morte.” 12 O ancora, sui giovani studenti, in Bagatelles pour un massacre, uno dei principali testi incriminati per il credo antisemita professatovi: “A parte le torture formaliste, gli scrupoli retorici, essi [gli scolari] resteranno finemente chiusi, impermeabilizzati alle onde viventi. I parenti, i maestri, li hanno destinati fin dal liceo, cioè a dire per sempre, ai simulacri dell'emozione. Resteranno goffi, insicuri, penetrati, solenni incrostati di tutte le loro ossa […] convinti, esaltati di superiorità, tutti cicalanti di latino […]”.
Posizioni che avrebbe probabilmente condiviso il poeta di Casarsa. Infatti, nelle lettere indirizzate sul “Corriere della Sera” al suo ideale discepolo Gennariello, egli descriverà un sistema scolastico da abolire, in quanto “insieme organizzativo e culturale che ti ha completamente diseducato, e ti pone qui davanti a me come un povero idiota, umiliato, anzi degradato, incapace a capire, chiuso in una morsa di meschinità mentale che, fra l'altro, ti angoscia.”
Le modeste origini sociali, pur sempre entro quella vasta ed eterogenea classe borghese, furono altresì all'origine di una ostilità e di un talento polemico che né Céline né Pasolini avrebbero forse maturato qualora figli della classe operaia o del proletariato contadino. Ciò non tanto per la prevedibile penuria di mezzi, che ne avrebbe sacrificato la compiuta formazione culturale, quanto per l'impossibilità di osservazione, dall'interno, dei decadenti rimpianti come delle fragili aspettative famigliari; insieme con le odiose personificazioni del denaro e del potere, divinità fondatrici di quel cosmo in cui entrambi si ritrovarono gettati.
Ma se nello scrittore italiano permane un ingenuo quanto ostinato ideale di arcaica purezza morale, cristallizzata nell'indigenza (“In nome degli uomini semplici che la povertà ha mantenuto puri”), nel francese appare decisamente più precoce una guardinga idiosincrasia verso quei mali sospettati comuni all'umanità tutta. Anche quando, lasciate alle spalle le baronìe della Società delle Nazioni, si prodigherà da medico di chi non poteva permettersi la malattia, egli dissacrerà senza indugio ogni lirismo pauperistico: “Cerco di curarli perché, mi dico, se soffrono saranno ancora più cattivi!”.
Non è senza significato, inoltre, che due depositari di una così alta umanità non vollero mai piegarsi a declinarla secondo le direttive ufficiali di partiti politici che si posero a lungo come meri depositari, nell'ambito delle democrazie occidentali, del discutibile credo comunista sovietico.
Abbiamo già citato la cronaca dal cuore del 'socialismo reale', che Céline pubblicò dopo un viaggio in Russia nel 1936 con il titolo di Mea Culpa. 13 Ad un resoconto alquanto originale per quegli anni (“Il programma del comunismo? Nonostante i dinieghi: in tutto e per tutto materialista! Rivendicazioni di un bruto a dei bruti!”) si aggiungerà, in Bagatelles pour un massacre, un ritratto caricaturale del feroce successore di Lenin: “Stalin non è che un boia, di enorme ampiezza certo, tutto gocciolante di trippe di congiurati, un barbablu per sottufficiali, un formidabile spaventapasseri, indispensabile al folklore russo... Ma dopotutto nient'altro che un boia imbecille, un dinosauro umano per masse russe che non reagiscono che a quel prezzo”). 14
Si direbbe eloquente, di per sé, il raffronto tra queste opinioni, risalenti al biennio '36-'37, e quelle espresse da Pasolini sul periodico comunista “Vie Nuove” nel '61 (vedasi, supra, cap. II). Sembra anche pertinente ricordare una illustre vittima del comunismo sovietico per mezzo del suo 'braccio armato' italiano: fautore di un “comunismo democratico”, anche Antonio Gramsci sarebbe caduto sotto la longa manus di Stalin, coadiuvato dal suo referente Togliatti – così almeno emergerebbe da alcuni studi condotti recentemente da Dario Antiseri, Massimo Caprara, Sergio Bertelli e Francesco Bigazzi, cui si rimanda per approfondimenti.
Tra le nutrite file di congiurati lesi nell'onore comunista dal mea culpa céliniano, si distingue per virulenza, prima che per prestigio, il nome del filosofo Jean-Paul Sartre: a scrivere “Se Céline ha potuto sostenere le tesi socialiste dei nazisti vuol dire che era stato pagato”, è infatti quello stesso Jean-Paul Sartre precedentemente legato alla pubblicazione collaborazionista “Comoedia”.
Come ricorda inoltre Lucette Almansor, ultima moglie di Céline, “[...] un giorno, agli inizi del '40, ho visto arrivare Jean-Paul Sartre che veniva a chiedere a Louis di intercedere in suo favore presso i tedeschi per dare alle scene il suo Les Mouches. Ma Louis ha rifiutato, gli ha detto che non aveva alcun potere presso i tedeschi.”
Massima autorità culturale francese per molti anni, in un editoriale sul suo “Les Temps Modernes” del gennaio '50, Sartre volle chiosare sulle accuse di genocidio mosse a Stalin, operando un netto distinguo tra crimini nazisti e crimini sovietici: l'ammirevole funzione rieducativa al “catechismo marxista-leninista”, affidata a questi ultimi genocidi, sembrava esonerarli da ogni giudizio, anche solo morale.
In una intervista del '54 a “Libération” sarebbe altresì arrivato a sostenere che “In Unione Sovietica c'è la più totale libertà di critica”, salvo ammettere, anni dopo, di avere mentito. Sostenuta da pensatori della credibilità di Sartre – ma che Céline giudicava “un asino con gli occhiali” – ed in pieno clima di equilibrismi da Guerra fredda, è agilmente intuibile la portata che una simile assoluzione avrebbe assunto per le coscienze di milioni di militanti delle sinistre europee, intellettuali inclusi. Ciò è del resto strettamente collegato alla campagna di diffamazione e censura che la persona e l'opera del dottor Destouches dovettero affrontare dall'ultimo scorcio della Seconda Guerra Mondiale sino agli ultimi anni di vita ed oltre, in ragione del suo antisemitismo almeno quanto del suo anticomunismo. Solo la caduta del Muro di Berlino e la possibilità di accesso ai contenuti di molti archivi secreti, rivelò la veridicità di alcune dichiarazioni e denunce che lo scrittore aveva esternato dagli anni Trenta (come le accuse alle lobbies ebraiche americane di avere finanziato la Rivoluzione bolscevica e caldeggiato l'interventismo degli Stati Uniti nel conflitto europeo), riabilitandone almeno parzialmente la reputazione.
Per la complessa vicenda politica relativa allo scrittore francese, qui per ovvie ragioni solo accennata, si segnala, oltre all'appassionato e forse troppo apologetico Céline gatto randagio, un testo assai più datato ma anche equilibrato, Céline, oggi di Paolo Carile, edito nel 1974. Ne riportiamo un estratto ritenuto esemplare, per lucidità ed accuratezza di documentazione: “L'impatto dei pamphlets sull'opinione francese fu tutt'altro che limitato. Solo nel corso del 1938 a Bagatelles furono consacrate più di cinquanta recensioni, note o articoli sui principali quotidiani o settimanali del tempo, la maggior parte di quegli scritti è di tono favorevole. […] Se tanti critici e scrittori autorevoli hanno, inoltre, avallato, con formule più o meno convinte o ipocrite, il contenuto di quegli scritti che non si possono rileggere, a distanza di anni, senza provare un profondo disagio morale, ciò indica che la cultura francese era in larga parte partecipe degli stessi miti xenofobi. Con questo non vogliamo attenuare le responsabilità individuali di Céline ma il quadro di ampia compartecipazione alla sua ideologia […] non permette di dare troppo credito alla tesi di un Céline fenomeno aberrante nel mondo letterario a cavallo della seconda guerra mondiale. Egli non ha fatto, in definitiva, che esprimere, con l'outrance che gli era propria, le paure irrazionali e i pregiudizi di una società quasi nel suo complesso, società che poi, col mutare degli eventi, ha scelto alcuni, isolati, capri espiatori da punire esemplarmente, per ricostruirsi una credibilità morale alla quale, dopo quello che si è detto, è dubbio avesse diritto.” 15
Di seguito si ripercorrerà per sommi capi la vicenda giudiziaria céliniana che, è opinione di chi scrive, offre ulteriori elementi di affinità tra il romanziere francese ed il poeta italiano. 16
In estrema sintesi, ricordiamo che nel 1944 Céline fuggì da Parigi alla volta della Danimarca, dopo che la sua condanna a morte era stata ufficializzata dalla Radio Londra – quelle stesse trasmissioni seguite da alcuni partigiani suoi condomini nello stabile di rue Girardon, e da lui più volte soccorsi in seguito a ferimenti. Raggiunto nel '45 da un mandato di cattura con l'accusa, formalizzata in Francia, di “alto tradimento” – per cui era prevista la pena capitale – ex art. 75 del Codice Penale francese (introdotto da un decreto-legge del 29 luglio 1939), egli scontò una detenzione, formalmente illegale, di circa diciotto mesi nelle carceri danesi. Finché nel 1950 si ebbe il verdetto, pronunciato in contumacia dell'imputato: un anno di reclusione (già scontato), cinquantamila franchi di ammenda, confisca dei beni (già effettuata), indegnità nazionale – a cassare per sempre, con quest'ultima formula, la memoria ed i meriti del suo arruolamento volontario in entrambi i conflitti mondiali, l'onorificenza e l'invalidità riportate nel corso della Grande Guerra, nonché i suoi ripetuti tentativi di dissuadere quella parte dell'opinione pubblica francese che sin dagli anni Trenta era a suo giudizio determinata a consegnarsi ad una “catastrofe definitiva”.
Quanto alla maledizione che cadde sulla sua opera, vanno ricordati, in un dovuto encomio, l'intraprendenza ed il coraggio di un artista improvvisatosi editore, quel Pierre Monnier che tentò, primo ed unico, di risollevare Céline dall'oblio, per poi consegnarlo al potente editore Gallimard, il quale lo avrebbe consacrato, come meritava, nel cielo delle Pleiadi. 17
Recuperando il filo conduttore di questo capitolo, sviluppato intorno al tema della persecuzione e della segregazione riservate ad ogni autentica espressione di libertà intellettuale, la panoramica della vicenda di Céline non può non riportare alla mente gli oltre trenta processi, uniti ai sequestri dei suoi romanzi e delle sue opere cinematografiche (da Ragazzi di vita ad Una vita violenta, da Accattone a Salò o le 120 giornate di Sodoma), che segnarono il percorso personale ed artistico di Pier Paolo Pasolini, lungo i vent'anni conclusivi della sua vita.
Confidando che all'iniquità degli eventi contingenti, anime e menti eccezionali sappiano contrapporre la lungimirante superiorità di una visione d'insieme (non dissimile dall'ottica che ci ha tramandato il grande storico Braudel), si vuole qui concludere ricordando lo sguardo rivolto all'estrema, 'Grande Consolatrice', da ciascuno dei due artisti – entrambi convinti atei i quali, tuttavia, mai videro in questo una rinuncia al misticismo, e ad un'intima religiosità rigorosamente non confessionale.
Il poeta delle Ceneri confessò al giornalista Jon Halliday, che lo intervistò nel 1968: “La vita acquista un senso quando è finita; prima di quel momento non ne ha, il suo senso è sospeso e pertanto ambiguo. Quando le parlo della mia tendenza al sacrale, al mitico, all'epico, dovrei dire che essa può essere completamente appagata solo dall'atto della morte, che secondo me è l'aspetto dell'esistere più mitico ed epico: tutto questo, tuttavia, a un livello di puro irrazionalismo.” 18
Céline, dal canto suo, sembra aver acquisito con alcuni anni di anticipo che “Lei ispira, la morte. E' anche la sola cosa che ispira. Io lo so, quando lei è là, proprio dietro di me. Quando la morte è in collera […]”; 19 pertanto concludendo “Per me si è autorizzati a morire quando si ha una buona storia da raccontare. Allora la si scrive, poi si va. Morte a credito è simbolicamente questo. Perché la ricompensa della vita è la morte.” 20

Se non risultano lasciti documentali che consentano di ipotizzare una conoscenza di Pasolini da parte di Céline, la fama di quest'ultimo non poté invece venire ignorata dal pensatore italiano, che se ne occupò tuttavia solo di sfuggita nel 1973, quando gli riservò parte di un articolo sul settimanale “Tempo”, dove dal 26 novembre 1972 al 24 gennaio 1975 tenne, a cadenza quasi mensile, una rubrica letteraria. In data 22 luglio 1973 egli recensirà dunque il romanzo Da un castello all'altro (pubblicato nel 1957 e tradotto inizialmente in Italia come Il castello dei rifugiati) che compone, con i successivi Nord del 1960 e Rigodon del 1969, quella che lo stesso Céline aveva concepito come Trilogia del Nord.
Si legge nell'incipit: “E' un luogo comune ammirare incondizionatamente Céline. L'obbligo morale che impone questo luogo comune è una specie di spregiudicata presa di posizione antideterministica, per cui risulterebbe, appunto, 'immorale' giudicare uno scrittore dalla sua ideologia e dai fatti della sua vita: mentre sarebbe 'morale' dissociare, da tale ideologia e da tali fatti, la sua opera. Nel caso di Céline questa dissociazione è codificata con particolare rigidità.
E' punto d'onore dell'intellettuale di sinistra non discuterla. Si tratta di un esempio di letteratura avanzata in uno scrittore 'reazionario': e serve a salvare la coscienza dell'intellettuale di sinistra dal dogmatismo dello scandalo.” 21
Queste premesse suscitano già diverse perplessità, nonché una certa amarezza. Con riguardo alle presunte colpe relative alla vita ed alla “ideologia” di Céline – termine, quest'ultimo, che appare decisamente improprio se associato allo scrittore francese – Pasolini vi allude con generica leggerezza, quasi fosse un acquisito postulato del ragionamento che andrà di seguito a sviluppare. Poi, in una sorta di complice ammiccamento al lettore, tecnica retorica che egli finirà per contestare proprio alla scrittura céliniana, “[…] E' uno sfogo, un'arringa. Ma poiché l'autore non può e non vuole affrontare direttamente i fatti di cui parla, instaura col suo ipotetico ascoltatore un rapporto tutto allusivo e ammiccante. Ed è appunto qui, in questo rapporto, che si manifesta l'ideologia e il carattere psicologico-politico dell'autore. E poiché questo 'rapporto' è in sostanza lo stile del libro, ecco che la famosa dissociazione non può essere operata.”
Appare singolare, aggiungeremmo, che certa ammirazione incondizionata venga attribuita proprio agli intellettuali di sinistra, per molti dei quali resta a tutt'oggi ostinato luogo comune quell'antisemitismo e quel razzismo dello scrittore francese tanto indiscutibili da potergli ancora attribuire, mediante un arbitrario sillogismo, un fervente collaborazionismo con il regime hitleriano.
Coro giustizialista cui si unì diligentemente, negli stessi anni di Pasolini, anche uno scrittore definito liberal quale lo statunitense Kurt Vonnegut, nella prefazione da lui curata per un'edizione americana della Trilogia del Nord; rendendo però con ben altra equità quanto dovuto al Céline 'fabbro della parola': “Ogni scrittore è in debito con lui, e così chiunque interessato a discutere le vite nel loro complesso. […] Con ben poco aiuto dalla sua eccentrica punteggiatura, Céline, secondo la mia opinione, diede nei suoi romanzi la migliore narrazione storica del totale collasso della civiltà Occidentale in due guerre mondiali, come la videro donne e uomini comuni e terribilmente vulnerabili. […] Magari non provava simpatia per i poveri e gli inermi, ma quel che è certo è che donò loro la maggior parte del suo tempo e della sua meraviglia. E non li insultò con l’idea che la morte, o anche l’uccidere, fosse in un certo qual modo nobilitante per chiunque. […] Penso che mancasse dell’apparato attutente che la maggior parte di noi ha, e che ci protegge dall’essere travolti dall’assurdità della vita per come realmente è. Nel momento in cui scrivo, l’autunno del 1974, è diventato evidente anche alla gente comune, con i loro apparati attutenti perfettamente funzionanti, che la vita è, in effetti, così pericolosa e implacabile e irrazionale come Céline ha affermato che fosse.” 22
Tornando alla recensione apparsa nel 1973 sul “Tempo”, ed attualmente presente nel volume Descrizioni di descrizioni, Pasolini prosegue: “[…] L'ultimo romanzo di Céline, Il castello dei rifugiati, è di carattere particolarmente autobiografico: parla, per l'appunto, dei fatti della sua vita e allude continuamente all'ideologia che li ha determinati. Anche per il più ostinato anticonformista sarebbe difficile in questo caso sfuggire al conformistico dovere di confrontare il risultato estetico con la 'volontà noetica', il tipo di conoscenza, che vi presiede. Tale confronto è disastroso per Céline e il suo valore letterario. […] Generalmente il protagonista di cui lo scrittore 'rivive il discorso' è molto diverso, psicologicamente e socialmente, dallo scrittore (per esempio Padron 'Ntoni è molto diverso dal Verga che lo rivive nella sua scrittura): invece, nel caso del Castello dei rifugiati, il protagonista e lo scrittore sono la stessa persona! Céline vive il discorso di Céline – appena appena distanziato da sé – in una forma più piccolo-borghese e media.”
L'ipotesi del carattere autobiografico dell'opera céliniana, di cui Pasolini sembra persuaso con riferimento al romanzo Da un castello all'altro, viene considerata in termini diversi da più di uno studioso. In questa sede si vuol citare Henri Godard, il quale nella Prefazione alla Trilogia del Nord invita ad una doverosa prudenza interpretativa: “Non è affatto certo che si debbano prendere per buone così come sono quelle recriminazioni e quelle professioni di fede, e trovarvi dentro senza ulteriori indagini l'espressione della personalità e delle convinzioni reali di Céline”. 23 Ogni dato reale e personale, siamo portati a credere, non è che materia grezza plasmata da quella trasfigurazione del linguaggio e della paradossale trama
narrativa, entro cui la rievocazione compiuta dalla memoria dello scrittore finisce spesso e volentieri per tradursi in un 'lucido delirio', un 'demiurgico raptus'.
Suscita inoltre amarezza constatare che Pasolini, ritenendo inscindibile l'elemento biografico dall'elemento poetico, e accomunandoli in un giudizio di severa quanto indeterminata condanna, non dimostri nessun interesse per l'approfondimento di una parabola umana così complessa e tragica, preferendo adagiarsi sulla 'vulgata' dominante, che continua a vedere in Céline un “criminale di guerra”, le cui atroci sofferenze furono, evidentemente, un equo contrappasso. Eppure Pasolini espresse queste sue opinioni nel 1973, a più di dieci anni dalla morte di Céline avutasi nel '61, ergo da ragionevole distanza per una valutazione magari altrettanto negativa ma forse più equilibrata e soprattutto meglio documentata, come sarebbe stato suo dovere intellettuale e di intellettuale. Concludendo la recensione, il Nostro chiosa così: “Il castello dei rifugiati è un brutto libro perché è odioso ciò che Céline pensa ed è. Il destinatario del suo 'monologo' finto è un uomo come lui, che la pensa come lui, o quasi. O che è comunque in grado di comprenderlo quando egli allude ai suoi trascorsi di collaborazionista e di criminale di guerra; o, quanto meno, di fare sua la disillusione che ne è seguita, con la conseguente spregiudicatezza critica nei confronti dei suoi ex idoli nazisti, rimescolati in una generale indegnità del mondo. Sicché il lettore è costretto a sentirsi identificare con un destinatario-complice. Ma ciò che l'autore gli comunica e gli confida – ammiccandogli come a un suo pari – come, appunto, a un orrendo complice – è così meschino e volgare, che il rifiuto da parte del lettore non può essere che assoluto. Non è possibile perdonare a Céline il suo fascismo in nome del buon senso borghese, e non è possibile dissociare da questo il suo stile, se il suo stile altro non è appunto che la 'mimesi' del buon senso di un borghese, sia pure disperato e scardinato dalla vita normale.” 24
Non è casuale che Pasolini non fornisca alcuna spiegazione sulle vere e proprie accuse che rivolge allo scrittore parallelamente al giudizio sul suo romanzo. Lo definisce ad esempio “reazionario” senza però che il lettore possa comprendere quale sia lo status quo ante da difendere, per Céline, non disdegnando l'eventuale utilizzo di metodi e mezzi autoritari (come da interpretazione letterale del termine 'reazione' suggerita da chi scrive). Una tale definizione accusatrice lascia alquanto perplessi anche in virtù del fatto che, se in Céline sono indubbiamente ricorrenti sinceri rimpianti per il passato, alcuni di questi risultano sorprendentemente affini a certi toni nostalgici pasoliniani – spogliati da quel peculiare lirismo idealizzante – in quanto disperati e solitari rifiuti dei tratti più disumanizzanti della concezione capitalistica della modernità, siano l'alienazione, l'omologazione intellettuale, o lo smarrimento definitivo di una propria identità culturale.
Sarebbe infine imperdonabile, si insiste nella recensione esaminata, quel credo fascista di Céline, già ricordato come “criminale di guerra” e “collaborazionista” di “ex idoli nazisti”. Che Pasolini giudicasse le proprie valutazioni l'espressione logica di un patrimonio culturale condiviso, pretendendo, coerentemente con ciò, che un lettore poco informato si affidasse fiducioso alla sua autorevolezza, non è dato sapere, così come sarebbe vano indugiare in congetture. Nel concludere il presente capitolo si tenterà piuttosto di dimostrare, attraverso il breve esame di alcuni tra i copiosi documenti esistenti, quanto ingiustificate ed ingiustificabili fossero determinate valutazioni di Pasolini, nel trascendere i limiti di una mera e rispettabile opinione personale per ergersi ad inammissibile ricostruzione storica o sentenza politica.

Relativamente agli “ex idoli nazisti”, nel suo Hommage à Zola del 1933 Céline scrive: “Nessun regime resisterebbe a due mesi di verità. Sia le società marxiste come le nostre borghesi e fasciste. […] Hitler non è l'ultima parola, ne vedremo di più epilettici ancora forse qui. […] Liberali, marxisti, fascisti, non sono d'accordo che su un punto: dei soldati! […] Forse non è più il caso di rendere un supremo omaggio a Émile Zola alla vigilia di un altro immenso disastro.”
Mentre in Bagatelles pour un massacre del '37: “Nessun satrapo ariano dura, non può durare. Loro fanno leva gli uni sugli altri per esaltare il loro branco di bufali fatto di mistiche mediocri, regionali, retrive, difensive... Vedrete Hitler! La misura del mondo attuale, sono dei mistici mondiali di cui ci si deve avvalere o sparire... Napoleone l'aveva capito... [… ]”.
Per l'assai indulgente biografa Marina Alberghini “Il fatto che lui si sia schierato pubblicamente contro il fascismo non significa che, per combatterlo, e non c'era altro modo, debba schierarsi sotto la bandiera di un'altra dittatura, il comunismo, che all'epoca intuì e poi constatò più feroce ancora.” 25
In tema di antisemitismo céliniano, sempre in Bagatelle leggiamo: “Non ho niente di speciale contro gli ebrei in quanto tali, voglio dire semplicemente malviventi come tutti noi, bipedi alla ricerca della loro zuppa […]. Ma è contro il razzismo ebraico che mi rivolto, che sono cattivo, che bollo fino in fondo ai precordi... Io impreco! Io tuono!” 26 (opinioni espresse da Céline quando le determinazioni della Germania sulla Questione ebraica erano ancora lungi dall'essere palesate).
Mentre in una lettera a Doriot del 1942 egli auspica: “E crepi l'antisemitismo! E crepino tutti quei coglioni ariani! […] Eccoci al fondo del riassunto, il risultato semplice e sinistro della rabbia ariana in azione […]”. Una rabbia che tentò anche di arginare con la povertà dei mezzi materiali di cui disponeva, come emerge dalle memorie di una sua infermiera presso il dispensario di Bezons, Lucienne Damas: “Joannin Vanni [commissario di polizia, N.d.A.] mi disse che il dottore stilava dei certificati falsi anche per gli ebrei [onde dispensarli dal tristemente noto Servizio di Lavoro Obbligatorio, N.d.A.].”
Relativamente all'accusa di collaborazionismo con i tedeschi, cui sembra si associ anche Pasolini, ribadiamo che, all'entrata in guerra della Francia, lo scrittore tentò di arruolarsi volontario: una volta riformato poiché invalido di guerra, si imbarcò come medico di bordo sul piroscafo armato Shella, silurato dai tedeschi sulla rotta Marsiglia-Casablanca, al largo di Gibilterra, nei primi mesi del 1940.
Menzioniamo poi un funzionario nazista, tal Karl Epting, direttore dell'Istituto di Cultura Franco-Tedesca, che ricorda: “Non ci furono certamente in quegli anni, sotto l'occupazione, che pochi francesi i quali abbiano preso così apertamente di petto i tedeschi come fece Céline, con uno zelo quasi autodistruttivo.” 27
Fanno eco alle parole di Epting quelle di un collega medico, il dottor Cloué: “Io ho assistito a una conferenza medica del dottor Destouches sotto l'Occupazione. E affermo che ha avuto molto coraggio per parlare in barba ai tedeschi come fece quel giorno.” Stando poi a quanto dichiarò un certo Eitel Friedrich Moellhausen, uno dei funzionari nazisti preposti ad organizzare la Collaborazione in territorio francese, “Fin dall'inizio [Céline] mi disse che non voleva sentir parlare di una collaborazione, e che aveva deciso di non scrivere più perché se aveva avuto il coraggio di mostrarsi favorevole ai tedeschi quando erano lontani, ora non poteva farlo più.”
Tra le figure di rilievo della Resistenza, ricordiamo quel Vailland che nel '50 si vanterà di aver pianificato l'uccisione dello scrittore, rimpiangendo di non averla poi portata a compimento e declamando infine dalla Tribuna delle Nazioni: “Noi non risparmieremo più Céline!”. Gli ribatterà Robert Champfleury che questi era perfettamente a conoscenza della presenza di loro, partigiani, nel suo stesso stabile di rue Girardon, e non soltanto non li aveva mai denunciati (come ci si sarebbe aspettato da un collaborazionista) ma aveva anche accettato di curare quelli feriti. Parole che trovano conferma in quelle di Pierre Petrovich: “Céline aveva molti amici, anche tra i partigiani. Noi leggevamo poco i giornali della Collaborazione. Ma quando ci scoprimmo una lettera di Céline si vide che non solo non c'era la minima adesione alla Collaborazione, ma che era piuttosto la denigrazione ironica di un solitario. […] Céline non ci apparve mai, in parole o atteggiamenti, sotto i tratti di un collaboratore del nemico.”
Durante il periodo del processo, un Céline preoccupato per la propria incolumità quanto riluttante a mostrarsi così provato, rimase in Danimarca, un esilio dal quale tornerà solo alcuni anni dopo la sentenza.
Nella sua memoria difensiva, egli si difese attraverso il proprio pamphlet forse più incriminato, Les Beaux Draps: “All'epoca della sua pubblicazione nel '41, io non sapevo niente, assolutamente niente delle deportazioni ebraiche, né di nessun'altra deportazione. Non ho d'altronde saputo nulla di queste atrocità, se non alla fine della guerra. Per me Les Beaux Draps non è un libro antisemita, ma fermamente patriottico, forse di un'intransigenza patriottica insopportabile, ma questo è tutto. Patriota io sono – assolutamente: mi sono schierato contro la guerra nel '39 perché vedevo nella guerra del '39 una catastrofe 'definitiva'. Questo modo di isolare dei passaggi dei Beaux Draps senza tenere conto del messaggio del libro blocca ogni forma di difesa – è il vecchio detto: 'Datemi due righe di non importa chi e lo farò impiccare! […]”. Fortunatamente un simile esito – che pure era previsto ex lege, come già ricordato – non si ebbe: la pubblica accusa concluse infatti la propria requisitoria dichiarando che “un simile individuo non sarebbe stato capace di collaborare con nessuno”, il che non impedì di chiederne la reclusione ed un pena pecuniaria.
Com'è giusto che sia, ognuno tragga le proprie conclusioni da tale pagina di storia. Questa è la riflessione che ci si concede di condividere qui: fatalmente, non potrà mai esserci arte senza sofferenza. Non perché il dolore nobiliti, quanto perché in mancanza di esso non si avrebbe percezione di uno dei sentimenti dominanti la realtà – almeno, così come continua a subirla o si ostina a concepirla quell'uomo che, disse qualcuno, sembra associarsi agli altri solo per dispensarsi dal pensare individualmente.


  Alessandro Vichi

1Dacché si è chiamata in causa la psicoanalisi quale chiave di lettura di tale parallelismo biografico, si potrebbe 'abusare' per l'ennesima volta del mito edipico immortalato nella tragedia di Sofocle, leggendo nella persecuzione (in primis giudiziaria) subita da entrambi gli autori, quelle celebri colpe dei padri ricadute sui figli innocenti (in tal caso, dei padri anche sociali, per così dire, oltre che individuali). Lo stesso Pasolini operò ricorrenti trasfigurazioni artistiche del proprio permanente conflitto con la figura paterna: vedansi, su tutte, la pellicola Edipo re, il testo teatrale Affabulazione e la sceneggiatura Il padre selvaggio.
2Mort à crédit, Romans 1, p. 550.
3Enzo Siciliano, Vita di Pasolini; cit., p. 62.
4Céline ricorderà così quella nonna, dalla quale mutuò il proprio nome d'arte: “Mio padre lo aveva in odio, non lo poteva vedere con la sua istruzione, i suoi grandi scrupoli, i suoi furori da debole, tutta la sua grancassa di scocciato. Sua figlia, la trovava cogliona ad aver sposato un fesso simile, a settanta franchi al mese nelle Assicurazioni. Quanto a me, il marmocchio, non sapeva bene cosa pensarne, mi teneva sotto osservazione. Era una donna di carattere.”
5Cahier Céline vol. 2, p. 17.
6Romans 2, pp. 998-999.
7Lettera di Pasolini a F. Leonetti, 21 dicembre 1958, Lettere, vol. II, p. 406.
8Pier Paolo Pasolini, Il pianto della scavatrice, da Le ceneri di Gramsci.
9François Gibault, Céline, vol. II, p. 51.
10Cahier Céline, vol. 5, p. 226.
11“New York Times”, 9 agosto 1966.
12 Les Beaux Draps, pp. 128-129, 166, 175.
13Un altro prestigioso intellettuale dell'epoca che si distinse per il coraggio della sua obiettività circa l'operato di Stalin fu, nello stesso periodo di Céline, André Gide.
14 Bagatelles pour un massacre, p. 50.
15Paolo Carile, Céline, oggi, Roma, Bulzoni, 1974; cit., pp. 124-126.
16Con riguardo all'oblio lungamente imposto intorno all'opera letteraria, nonché alla persona di Céline, va senz'altro menzionata la sua inclusione in quella lista di proscrizione stilata in Francia nel 1944 da parte del Comitato Nazionale degli Scrittori. Tra i firmatari, nomi come quello di Mauriac, Valéry, Camus, Eluard, Sartre, Claudel, Aragon, De Beauvoir.
17Ricorderà Monnier in un'intervista con la Alberghini: “[…] fra il 1946 e il 1958 fu seppellito vivo. Se qualcuno pronunciava il suo nome era solo per coprirlo di insulti seguiti dalle calunnie più atroci […]. La sinistra non gli ha perdonato di non aver voluto essere il suo alfiere, ruolo che poi è stato dato ad Aragon.”
18 Halliday, Pasolini, cit., p. 61.
19Cahier Céline, vol. 2, p. 136.
20Romans 1, p. 1325.
21Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Milano, Garzanti; cit., pp. 174-176.
22Ad ulteriore conferma del ruolo d'ispiratore da lui tributatogli, ricordiamo che Vonnegut aveva già citato con devozione lo scrittore francese nel suo romanzo Slaughterhouse-Five del 1968: “Céline fu un coraggioso soldato francese durante la Prima guerra mondiale, finché non gli spaccarono il cranio. Dopodiché non riusciva più a dormire e sentiva dei rumori nella testa. Diventò medico, e di giorno curava la povera gente, per tutta la notte scriveva romanzi grotteschi. L'arte non è possibile senza una danza con la morte, scrisse. […]”. E da un artista, si vuole qui aggiungere, ci si dovrebbe aspettare che sappia come distinguere la poeticità della morte da una prosaica fine della vita. Perché è incontrarla, guardarla, conoscerla finché si è in tempo, che permette di estorcere alla morte quel che serba di vitale per qualsivoglia forma d'arte; quanto di mortale per qualsivoglia forma di vita.
23Henri Godard, Prefazione alla Trilogia del Nord, Milano, Einaudi; cit., p. XXVIII.
24A proposito del presunto fascismo di Céline, chiamiamo nuovamente in causa lo studio di Paolo Carile, il quale sostiene: “[…] si può dunque evincere che parlare di Céline fascista è improprio: lo scrittore manifestò soltanto alcune affinità con certi atteggiamenti ideologici dell'estrema destra ma fu estraneo ai principi peculiari dei movimenti fascisti e […] nonostante il suo particolare antisemitismo e anticomunismo, non collaborò, in modo organico e impegnato, con i nazisti.”
25In The Freedom of the Press del 1945, breve saggio a premessa (non inserita dall'editore) della prima edizione del suo Animal Farm, George Orwell scrive: “L'ortodossia dominante esige in questo momento un'ammirazione acritica nei confronti della Russia sovietica. Stalin è sacro, e certi aspetti della sua politica non vanno posti seriamente in discussione. Questa regola viene osservata quasi universalmente a partire dal 1941, ma era già in vigore, e in modo molto più esteso di quanto a volte si creda, da una decina d'anni.”
26Quando la Resistenza francese riceverà l'ordine di giustiziarlo, in difesa di Céline si schiererà, tra gli altri, Choron Gourewitz, del Movimento Nazionale Ebraico, che nel 1944 scriverà: “Noi siamo spesso d'accordo con Céline quando denuncia il giudaismo come un male, come un modo di vita basato su falsi valori.” Mentre Jacques Duval testimonierà al processo: “[…] Io non ho mai visto Céline in preda a un'ossessione antisemita […]. Così come non l'ho mai visto scagliarsi verso gli israeliti che frequentava in gran numero.”
27Sempre in termini di impulso autodistruttivo sembra potersi – parzialmente – spiegare questo scambio di battute con l'ambasciatore tedesco Otto Abetz: “- Voi, signor Céline, si sa che non amate i tedeschi... - Io non amo i tedeschi? Non è vero, Gen Paul [pittore amico di Céline, N.d.A.], che noi li amiamo? Fai vedere al signor Ambasciatore come fai bene Hitler!”. O certe conclusioni su Hitler esternate al ministro Schleier: “[…] io parlo del pupazzo che è al potere, un tragico buono a nulla che vale giusto un controllore del metrò, e meno di una ruota di scorta.”

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