giovedì 27 ottobre 2011




La guerra insomma era tutto quello che non si capiva [...] Mai mi ero sentito così inutile come in mezzo a tutte quelle pallottole e le luci di quel sole. Una immensa, universale presa in giro.


Dal Viaggio. Nella foto, due corazzieri francesi aiutano un loro compagno ferito, St. Quentin, agosto 1914. Il corazziere Destouches doveva apparire così al tempo del suo servizio nel 12° reggimento corazzieri.

mercoledì 26 ottobre 2011

Riflessioni sul saggio di Germinario: Céline. Letteratura politica e antisemitismo, di Patrizio Paolinelli




Riflessioni sul saggio di Germinario: Céline. Letteratura politica e antisemitismo

di Patrizio Paolinelli


Le note che seguono si limitano ad esprimere dei dubbi e non elenco i motivi per i quali considero utile il lavoro di Germinario.

Annodare il filo nero che unisce l’insieme dell’opera céliniana (letteraria e saggistica) è un’operazione di estrema utilità. Germinario non ammette un doppio Céline e tutto il suo libro verte a dimostrare quest’inammissibilità. E’ vero, in Céline sussistono delle continuità. Ad esempio fino all’ultimo giorno della sua vita sarà ostile al melting pot. Ma c’è anche dell’altro, come in ogni persona. A me sembra che esistano più Céline ed è poco probabile che così non sia perché tutti noi moderni e postmoderni costruiamo la nostra realtà giorno per giorno (assumendo ruoli diversi) spesso in maniera incoerente. Eppoi, se non concediamo a Céline alcuna possibilità di riscatto cosa resta? La dimostrazione che è stato per un periodo filonazista e per tutta la vita poco tollerante. D’accordo, ma ci possiamo oggi accontentare di questa dimostrazione dinanzi all’affermazione di nuovi razzismi e nuovi autoritarismi? A mio giudizio la dannazione di Céline non riguarda il tempo che ha vissuto ma il nostro presente.

Il libro di Germinario sull’itinerario politico di Céline mi pare confermare la mia ipotesi di un Céline postmoderno (ipotesi che ho espresso nel libro: Nello specchio della modernità. Fotoritratti di Louis-Ferdinand Céline, Bonanno, 2010). Senza un ordine di proprietà e in maniera incompleta mi limito a un breve elenco di alcuni elementi rilevati dalla ricerca di Germinarlo. I seguenti:

· Il progresso è un’illusione.
· Avversione per il pluralismo politico.
· Individualismo innato.
· Le classi non esistono.
· Culto del corpo.
· Culto della bellezza.
· Plagio.

Sono tutti elementi tipicamente postmoderni e nient’affatto esclusivi dell’estrema destra, ma diffusi nella società e in molte comunità intellettuali. Due esempi: 1) i sociologi oggi si astengono rigorosamente dal parlare di progresso, anzi molti affermano che è un’ideologia morta e sepolta; 2) in quanto al pluralismo politico mi pare che oggi l’assolutismo neoliberista abbia fatto davvero piazza pulita di ogni reale alternativa al suo modello sociale (che resta quello capitalista).

E passiamo al Céline politico. Procedendo sempre per punti.

Intanto le svolte: al Céline impolitico del Voyage succede il Céline antipolitico del Mea Culpae poi il Céline tutto politico di Bagatelle. Direi che si tratta di balzi tipicamante post-moderni. Ma direi anche che attribuire a Céline un forte acume politico mi pare concedergli un po’ troppo. Tant’è che non farà alcuna carriera politica. Insomma mi pare un dato di fatto che Céline non possieda grandi capacità politiche, anzi molto poche. Se poi teoricamente era pure un plagiario come Germinario sostiene non resta neanche l’ideologo. E d’altra parte, lo stile gridato dei libelli non basta a fare di Céline un teorico della politica.

È evidente che biografia e storia si sposano, come in chiunque di noi. Ma in Céline il dato biografico a me pare prevalere su quello politico. Tant’è che nonostante i libelli antisemiti resterà politicamente isolato (per sua fortuna). Non pare proprio che i nazisti tedeschi lo abbiano considerato un punto di riferimento. Sicuramente lo è stato per alcuni. Ma neanche nel suo paese ha trovato gran seguito.

Come Germinario illustra, Brasillach critica pesantemente Bagatelle affermando che alla fin fine mette in cattiva luce gli antisemiti. Non è una prova che Bagatelle, in quanto enciclopedia di invettive, è più un testo umorale che politico? Se si considera poi che i pamphlet sono stati scritti un quattro e quattr’otto e che i dati quantitativi riportati da Céline sulle presunte malfatte degli ebrei non hanno il benché minimo riscontro statistico il Céline politico si riduce a poca cosa nonostante il successo di Bagatelle e l’ammirazione di alcuni circoli dell’estrema destra.
Non sto contestando la ricostruzione di Germinario. Dico solo che se Bagatelle, La scuola dei cadaveri e la Bella rogna non portassero la firma di Céline sarebbero caduti nel dimenticatoio come tanti altri pamphlet dello stesso tenore pubblicati in Francia negli anni ’30 e ’40 (osservazione che lo stesso Germinario fa all’inizio del suo saggio). Aggiungo che Céline va problematizzato e non semplicemente condannato perché era preso dall’ideologia ariana e (per un periodo) filonazista. Che dire del Céline antihitleriano del dopoguerra? Che dire del Céline che sempre nel dopoguerra definisce gli ebrei padri della nostra cultura? Semplicemente un opportunista? In parte è vero ma non basta se non separiamo il Céline politico dal Céline uomo comune. In altre parole, condannare Céline senza appello paradossalmente contribuisce a mitizzarlo (e dunque a non comprenderlo). Nel mio libro tento di ricondurlo a quello che è: un individuo ambiguo, contraddittorio, pieno di problemi irrisolti, opportunista, bugiardo fino all’inverosimile, politicamente superficiale. Il che non significa assolverlo dai suoi errori. Ma mi chiedo: siamo così sicuri che dosi di intolleranza totale non siano presenti nel nostro tempo? Alcuni esempi. La dittatura della pubblicità, il pensiero unico del consumismo, la violenza inenarrabile sulla natura.

A più riprese Germinario riporta brani in cui Céline si lamenta del fatto che nessuno lo segue nella sua crociata antisemita e totalitaria. Certo, perché secondo lui la Francia è ebraizzata, massonica, dreyfusarda e antirazzista. Ma questo non costituisce un dato di fatto sulla scarsa incidenza politica di Céline? Un generale senza esercito, un profeta che grida nel deserto, per Jünger un megalomane mezzo matto.

A un certo punto della sua analisi, riferendosi al percorso politico di Céline, Germinario parla di doppia rottura epistemologica. Sarò riduttivo ma più semplicemente direi che Céline cambia opinione. Céline non era un politico né un teorico della politica. Per Germinario poi era un plagiario inserito in una tradizione antisemita di lungo corso. Non inventa nulla (lo stesso Germinario parla di un célinismo avant la lettre). D’accordo, rompe con il nazionalismo e la germanofobia di Maurras. Ma non è certo l’unico. Sul piano politico i libelli non sono che pessimo giornalismo. Pessimo giornalismo intervallato da toccanti pagine letterarie.

Nel suo studio Germinario tenta di dimostrare una compattezza del pensiero politico céliniano che presuppone un pensatore lucido e politicamente navigato. Un cavallo di razza insomma. E’ il caso di Céline? A me sembra che politicamente parlando Céline sia un ronzino. Magari coerente, magari di momentaneo successo, forse, in virtù del suo impareggiabile stile, un classico dell’antisemitismo ad oltranza come Germinario afferma, ma pur sempre un ronzino. Se così non fosse come si spiega che non sia diventato né un ideologo universalmente riconosciuto né un leader con un seguito popolare? Eppure Céline aspirava a questi ruoli. Ma il fatto di non averli conseguiti non dà la conferma del suo scarso talento politico? Il che naturalmente non giustifica i danni compiuti con i suoi libelli.

L’arcaismo politico di Céline connesso al suo progressismo letterario spiazza non poco. Germinario risolve questo spiazzamento affermando che novità della lingua e novità politica (i fascismi) si reggono a vicenda. Vero. Ma il cerchio si chiude qui? Non c’è dell’altro? Il Céline che nei pamphlet scrive pagine di poesia e pagine di furore omicida non ci segnala un terremoto linguistico? E questo terremoto non colpisce almeno un poco tutti noi? Questa parola che per il solo fatto di essere pronunciata cade negli abissi annullandosi in quanto principio dell’umano non ci pone degli interrogativi? E questa stessa parola che a un certo punto risorge dalla morte che si è data non ci dice che alla fine Céline altro non era che un uomo profondamente disorientato e preda di paure incontrollate? Non sembra un uomo che circola ancora oggi tra noi rendendo possibili vecchi e nuovi razzismi, vecchi e nuovi autoritarismi? Per tutti questi interrogativi penso che non basti liquidare Céline con una pur netta e inevitabile condanna politica. E’ necessario che diversi punti di vista si incrocino per formulare nuove analisi capaci di spiegare il tempo presente. E la parabola di Céline ci può essere di molto aiuto.

domenica 23 ottobre 2011

Le avventure di Céline raccontate dal suo gatto, Bébert: Le chat de Louis-Ferdinand Céline di Frederic Vitoux su Venerdì di Repubblica




Era un tigrato di dimensioni ovine. Ma capace di acrobazie alla Scaramouche. Un trovatello scaltro e goloso come un picaro – però scudiero ad altissima fedeltà. Si chiamava Bébert. A Montmartre visse una gioventù bohèmienne, tra il vagabondo e l’aristogatto, lungo le grondaie e i marciapiedi di Parigi. Frequentò star del cinema, romanzieri, drammaturghi. Durante la guerra sfuggì alle persecuzioni razziali. Sgusciò per la Germania carbonizzata e prossima all’Anno Zero – incrociando gerarchi in fuga, collaborazionisti allo sbando, tutto un demimonde di ex tribuni, giornalisti collusi, maitresse al seguito, parecchi bastardi e qualche povero cristo. Sempre appresso a Louis-Ferdinand Céline, lo scrittore – e dunque il padrone – più incomodo del Novecento.
A mezzo secolo dalla morte del Docteur Destouches (il vero nome di Céline, 1894-1961), in Francia rispuntano vecchie polemiche e fioccano nuove biografie. Ma torna in libreria anche Bébert – la singolarissima vita del gatto di Céline uscita nel 1976 da Grasset. L’ha scritta Frédéric Vitoux, critico, romanziere, pioniere negli studi célininiani, nonché titolare della poltrona numero 15 dell’Académie Française. Raccontare gli uomini illustri attraverso gli animali che ne accompagnarono l’esistenza è diventato un filone fortunato quanto, spesso, un po’ stucchevole. Però il libro di Vitoux dribbla le blandizie della moda. Perché è stato concepito in tempi non sospetti. E perché non resta intrappolato nel voyeurismo aneddotico. D’altronde, Bébert non è un comprimario qualunque nella traiettoria di Céline. Ma, in anni cruciali e tremendi, diventa per lo scrittore «modello, specchio, alter ego. Personaggio a pieno titolo degli ultimi romanzi. Lo vediamo apparire in Nord e Da un castello all’altro, fino a Rigodon» rammenta Vitoux, di passaggio a Roma. Bébert è il liquido di contrasto che svela le violente incoerenze di Céline, che ne demistifica allucinazioni e paranoie: «Quando il gatto entra in scena, nella scrittura riaffiora un minimo di verità. Appena si allontana, tornano deliri e menzogne».Era un randagio della regione parigina, poi raccolto dalla Protezione Animali e messo in vendita nel megastore La Samaritaine. Ad acquistarlo, nel 1935, è Robert Le Vigan, divo del cinema francese tra le due guerre (accanto a Jean Gabin in film quali Il porto delle nebbie o La bandera) e, in seguito, pimpante collaborazionista. Sorta di Osvaldo Valenti in salsa pétainista.L’attore fece dono del gatto a Tinou, una figurante algerina conosciuta sul set, che sarebbe diventata sua moglie. Infelicemente. Nel giro di pochi anni la coppia smotta. E la Francia pure. I nazi sfondano. Si prendono tutto. Mettono su il governo-transgenico di Vichy. Morale: il tigrato si ritrova all’abbandono. «O almeno così credevo» sorride Frédéric Vitoux. «Quando il libro era in uscita, venni contattato da Tinou, l’ex di Le Vigan. Era furente. Siccome avevo scritto che trent’anni prima s’era sbarazzata del gatto, voleva trascinarmi in giustizia!». Non lo fece. Ma tanto basta per confermare che Bébert è di quelle bestie che catalizzano le passioni. Céline e sua moglie Lucette, insegnante di danza classica, lo adottano nel 1942. Abitano al numero 4 della rue Girardon, proprio di fronte al Moulin de la Galette. Con i coniugi Le Vigan sono vicini di casa e compagni di merende nella Parigi imbrunita dell’occupazione. Mezzo domestico, mezzo girovago, il gatto assiste agli allenamenti di Lucette in calzamaglia, passeggia coi padroni sui boulevard, riprende peso. Ma ancora una volta la pacchia dura poco.Anno 1944: alla vigilia dello sbarco alleato in Normandia, per Céline si mette male. Tra minacce di vendetta, Parigi gli si stringe al collo come un cappio. Tecnicamente, lui non è mai stato un collaborazionista attivo, un galoppino a libro paga dei tedeschi – come più tardi gli verrà sputato in faccia da Jean-Paul Sartre. Però, negli anni Trenta, ha scritto brutali pamphlet razzisti che, nel clima da repulisti della Liberazione imminente, possono costargli caro: il carcere – alle brutte la fucilazione. Céline antisemita? Sì. Senza se e senza ma. «Antisemita per formazione, per discendenza piccolo-borghese» ricorda Vitoux. «Eppure nei romanzi non c’è traccia di ebrei stereotipati come, ad esempio, in Simenon o Mauriac». Del resto, reduce traumatizzato e pluridecorato della Grande Guerra, il dottor Destouches «detestava i tedeschi. Il suo ideale era l’Inghilterra». La Londra dei bassifondi promiscui e libertari esaltata in Guignol’s band.Già, ma nel ‘44, queste son patetiche sottigliezze: letteratura. Il 17 giugno, intabarrati come Totò e Peppino, e con denari nascosti fra le cuciture, Céline e Lucette saltano su un treno alla Gare de l’Est. Destinazione: Germania. Il gatto è con loro. Chiuso in una sporta e munito di passaporto sanitario rilasciato dai veterinari della Wehrmacht all’Hotel Crillon. Esile protezione. Perché – ma nessuno lo sa ancora – al di là della frontiera, il Reich in rovina ha decretato la soluzione finale per tutti gli animali «non di razza e inabili alla riproduzione».Ora, Bébert è un bastardo. E, dopo le scorribande libertine per Montmartre, è stato pure castrato. Quindi: un sans-papiers. A rimorchio di una coppia allo sbaraglio. «In realtà» precisa Vitoux, «Céline e Lucette non volevano rifugiarsi in Germania, ma da lì raggiungere la Danimarca dove avevano messo da parte dell’oro». Il transito durerà dieci mesi. Diventando quel viaggio allucinante che è fonte di deliri e poesia negli ultimi romanzi céliniani.Louis-Ferdinand, Lucette, Bébert: il terzetto rimbalza, striscia, scappa da Baden-Baden a Berlino, da Lipsia ad Augusta. A Ulm, gatto e padroni assistono ai funerali di Rommel. Ad Hannover zigzagano sotto un’alluvione di bombe. Uno scoppio scaraventa lontano la borsa con dentro Bébert: il gatto ne esce allibito, ma incolume. Però il vero climax è a Sigmaringen, la cittadina del Baden-Wuttemberg dove i nazisti hanno stipato vertici e manutengoli della Francia filo-hitleriana. Oltre duemila persone. Da Pétain a Laval, passando per l’ideologo Doriot e giù tutti i gregari a seguire. Sigmaringen è la Salò del collaborazionismo. Céline la ritrae senza la ferocia sadiana di Pasolini «ma con toni infernali, grotteschi alla Bosch, o Bruegel». Perciò scrive: «Diresti un’operetta (...) città leccata, un po’ bomboniera, mezza-pistacchio (...) tutto in stile barocco-crucco». Una Götterdämmerung di paccottiglia. Di quel ridicolo, Destouches è cronista ma anche tassello. I gerarchi lo sfottono perché s’è presentato all’Apocalissi col gatto. Lui abbozza. Cura i malati di scabbia. Bébert è un cencio. Grufola a caccia di cibo. Gli sganciano rape. Vorrebbe i wurstel. Ma quelli se li pappano gli uomini.A fine marzo ‘45, coniugi e tigrato approdano in Danimarca. Però Céline viene arrestato. Passa in prigione un anno e mezzo. In galera si ammala. A riflesso del padrone, anche il gatto sta male. Gli asportano un tumore. Se la cava. Come Céline. Che torna libero ma confinato – con moglie e felino – in una baracca sul mar Baltico. Grazie a cavilli ed astuzie legali, lo scrittore rientra in Francia nel 1951. Assieme a un drappello fra cani e gatti. Si piazzano tutti nella villetta-eremo di Meudon – porte di Parigi. Dove Bébert muore l’anno dopo. D’un nuovo cancro, ma stavolta generalizzato. È una creatura sfinita, «a corto di respiro e di speranza, sdentato e inappetente». Ha 16 anni. Ha assistito al suicidio di un mondo. Scrive Céline: «È morto qui, dopo tanti di quegli incidenti, nascondigli, bivacchi, ceneri, tutta l’Europa...». Ma è morto «agile e aggraziato, impeccabile». D’altronde, fra le macerie della Storia aveva mantenuto una sola priorità: l’igiene. Nel mezzo della catastrofe si leccava, perché: la toilette, avant tout.In Céline non c’è alcuna umanizzazione dell’animale. Bébert rimane sigillato nel mistero, «nell’irriducibile estraneità dei gatti» osserva Vitoux. Davanti ai grandiosi sproloqui dello scrittore, il tigrato rappresenta il silenzio, l’eleganza muta, l’antitesi del linguaggio. Per Destouches, che pure ne smitraglia a raffica, «le parole sono il massimo della miseria. Sono veicolo di malvagità e bugie. Solo il gatto è sincero. Non parla, dunque non mente».Ciò detto, restano tutte da raccontare vita, reazioni, emozioni degli animali durante le guerre moderne. Nel mirabile Storia naturale della distruzione, W.G. Sebald riferisce degli elefanti in fiamme che, sotto il bombardamento dello zoo di Berlino, lanciano alti barriti e si squagliano tra ossa e frattaglie. Nel film Underground, Kusturica ha mostrato le scimmie e i pachidermi impazziti nel fuoco dello zoo di Belgrado. Ma quanto accaduto nel «bioparco» di Saddam, o ultimamente tra i leoni e gli ippopotami di Gheddafi, aspetta ancora una parola. Magari alla Céline. Che, nel ‘52, dedicava l’imperdibile Pantomima per un’altra volta – appena ripubblicato da Einaudi – «Agli animali, ai malati, ai prigionieri».


di Marco Cicala, Venerdì di Repubblica, 21 ottobre 2011.


(nella foto, la copertina della 1a edizione del libro)

Céline e quelle lettere maledette, recensione di "Céline ci scrive" su Rinascita






Céline e quelle lettere maledette

di Angelo Spaziano


Per i tipi del Settimo Sigillo è da poco in libreria il saggio “Céline ci scrive - Le lettere di Louis-Ferdinand Céline alla stampa collaborazionista francese, 1940-44”, a cura di Andrea Lombardi, con prefazione di Stenio Solinas.
L’opera sarà presentata oggi, alle 18 e 30 a Roma, nello spazio culturale “Foro 753”, in via Beverino 49, a Roma. Già la veste tipografica del testo è, di per se, una chicca. Non meno importante è il fatto che in questo volume vengono tradotte per la prima volta in italiano le lettere “maledette” di Louis-Ferdinand Destouches, alias Celine. Missive che il celebre letterato francese inviò ai vari organi di stampa della Repubblica di Vichy nel periodo della II guerra mondiale compreso tra l’arrivo dei tedeschi a Parigi e la vigilia che precedette la caduta del Terzo Reich. Nella prefazione Stenio Solinas tratteggia l’intera vicenda biografica dell’autore transalpino con una prosa che sa di poesia. Al tempo stesso il noto giornalista dà al lettore a secco di notizie tutte le informazioni utili sul carattere, gli ideali e i sentimenti dell’uomo di Courbevoie.
Caratteristiche che fanno dello scrittore d’oltralpe un soggetto stilisticamente non omologabile, né tantomeno “inquadrabile” in alcuna corrente letteraria di definizione accademica. Céline è Céline, insomma, un cane sciolto, uno spirito libero, un’anima inquieta e tormentata, individualista, anarchico, nichilista, razzista, rivoluzionario, antiborghese, antibolscevico e ferocemente ostile pure ai “terroni” di casa. Fino al punto da augurarsi la secessione della parte nord dell’Hexagone da quella sud, “meticcia”, “papista” e “massonica”. Il saggio introduttivo ci offre, inoltre, un rapido excursus sulle opere dello scrittore e ci fa comprendere perché è necessario leggerlo. Il fatto è che il burbero uomo di cultura è stato il primo, se non l’unico, che già agli albori del XXI secolo aveva individuato nella penosa decadenza politica, culturale e morale francese innanzitutto e dell’Europa in secondo luogo le tare dello spirito che attualmente avvelenano la nostra società e l’occidente tutto. Nell’introduzione che segue la prefazione, Andrea Lombardi scrive infatti che, proprio come vaticinava Céline: “I sistemi democratici, le istituzioni democratiche, sono diventati dei circhi equestri, delle palestre di buffoneria a buon mercato”.
E questo convincimento è presente ove più ove meno un po’ in tutte le opere dell’autore di “Viaggio al termine della notte”. Già il continuo affiancare il linguaggio popolaresco a quello erudito, unito al frequente uso di iperboli ed ellissi, impone Louis-Ferdinand come un innovatore nel panorama culturale transalpino e non solo. Tuttavia egli risulta a tratti insopportabile, offensivo, spudorato, oltraggioso, irriverente. Troppo diretto, troppo poco diplomatico, troppo privo d’orpelli intellettuali per piacere ai sensibili palati del pensiero omologato. Le sue lettere hanno la sagacia ed il mordente d’un Seneca e, soprattutto, sono “docce gelate” potenzialmente letali per le tiepide, tremule “animucce” del culturame politicamente corretto di stampo gallico. Per Céline null’altro che una manica d’ignavi e soppiattoni. Gente senza onore che, presagendo la fine del lungo conflitto che travagliava la Francia, dopo aver inneggiato all’occupante tedesco, già si preparava a fare il “salto della quaglia” in soccorso del vincitore angloamericano. Nell’epistola al “Je suis partout” del 15 giugno 1942, ad esempio, il castigamatti prende spunto dalla censura che ancora mette all’indice il suo romanzo “Beaux draps” per descrivere la nazione d’Oltralpe come un “continuum” spaziotemporale di vigliaccheria cronica e piaggeria inveterata. Una realtà affetta da una mortificante vocazione al conformismo che attraversa lo spirito della nazione celtica da un governo all’altro, da uno pseudoidealismo all’altro, svendendola per un piatto di lenticchie alla lobby che in quel momento risulta la più potente o la più di moda. Così come, in un’altra lettera inviata alla redazione del collaborazionista ”Je suis partout” del 9 luglio 1943, l’autore sembra tracciare con decenni d’anticipo sui tempi il deprimente identikit della nostra “trista, omologata, opulenta, borghese società”.
Proprio alla luce di tutto questo anticonformismo rancoroso e inconciliabile con il buon senso un tanto al chilo e con la politica accomodante e accattona dei guitti della partitocrazia, Céline viene ancora ostracizzato e bandito dai salotti letterari e dalle aule accademiche di Marianna. Non per niente Lombardi, riallacciandosi alla presentazione di Solinas, stigmatizza come a tutt’oggi non si riesca a trovare un solo critico sufficientemente onesto che sappia parlare dello spiritaccio di Clichy senza etichettarlo come “anti” o come “pro”. Nessuno, insomma, che valuti a pieno le capacità letterarie e stilistiche di un autore che, per quanto “maledetto” e scomodo, ha saputo spaziare da maestro nell’universo letterario novecentesco francese ed europeo, veleggiando di bolina dai pamphlet più ironici ai romanzi più puramente intimistici. Infatti, malgrado il suo innato senso della protesta, il caratteraccio impossibile e l’inguaribile misantropia, lo scontroso medico dei poveri riesce a ritrarre la realtà umana delle desolate periferie parigine con parole che sembrano stilettate al curaro, certo, ma anche con accenti dolci e delicati, quasi poeticamente nostalgici. La lettura di questo carteggio così “doloroso”, così sconsolato e inconsolabile, è agevolata anche dalla valida traduzione di Valeria Ferretti, fedele al testo originale e, insieme, elegante nella forma italiana. Interessanti i dagherrotipi dell’epoca che fungono da piacevole intervallo tra lettera e lettera. Spunti su cui meditare provengono anche dai tre articoli conclusivo-riassuntivi che completano il volume: “Il dialogo franco-tedesco: il caso L.F. Céline”, di Joseph Jurt; “L’altra parte della barricata”, di Andrea Lombardi; “Céline non ci ama” di Karl Epting. Intervistato da Claude Sarrante di “Le Monde” Céline avrà un giorno a dire: “Solamente a noi è stata data la parola. Questo fa l’uomo politico, lo scrittore, il profeta. La parola è orribile… ma arrivare a tradurre quell’emozione è così difficile che lei neppure se lo immagina, è sovrumano, è un’abilità che uccide”. E lui infatti risultò essere la prima vittima di se stesso e del suo dannato talento, indomito e senza compromessi.

mercoledì 19 ottobre 2011

Le Procès Céline su Arte



Cinquante ans après sa mort, Louis-Ferdinand Céline n'en finit pas de susciter la controverse. Le génie exonère-t-il de l'ignominie ? Un voyage étourdissant dans la nuit célinienne, où l'accusé dialogue avec des adversaires et défenseurs de poids.

Un documentaire d'Antoine de Meaux et Alain Moreau

http://videos.arte.tv/fr/videos/le_proces_celine_extrait_1_-4200400.html

martedì 18 ottobre 2011

Presentazione del libro CÉLINE CI SCRIVE @ Foro 753, sabato 22 ottobre ore 18.30




SABATO 22 OTTOBRE 2011

dalle ore 18.30


CÉLINE CI SCRIVE!


Presentazione del libro: CÉLINE CI SCRIVE



con:



- Enzo CIPRIANO Ed. Settimo Sigillo

- Roberta DI CASIMIRRO Commissione Scientifica Biblioteche di Roma e giornalista RAI

- Andrea LOMBARDI Curatore del testo

- Elena BARLOZZARI Foro753

a seguire:


Rappresentazione Teatrale CÉLINIANA

Incontro di Parole e Musica da un'idea di M.M. MERLINO

a cura del Laboratorio Teatrale SetteCinqueTre

a seguire APERITIVO

martedì 4 ottobre 2011

"Céline ci scrive" recensito da Adriano Scianca sul "Secolo d'Italia"...





Le lettere di fuoco del sulfureo Céline

In un libro le missive dello scrittore ai giornali "collabò"

di Adriano Scianca


Una Feltrinelli o una Einaudi qualsiasi, probabilmente, avrebbero sorvolato. Tagliuzzato, selezionato. Epurato. Perché lo scandalo va coltivato in serra, controllato, reso potabile o altrimenti nascosto sotto al tappeto. Settimo Sigillo, invece, ha avuto il coraggio della verità. Ed è così che, proprio per i tipi della casa editrice romana, è potuto arrivare sugli scaffali delle librerie italiane questo incredibile Céline ci scrive (a cura di Andrea Lombardi, pp. 240, € 25,00), raccolta senza censure e senza attenuazioni delle lettere scritte dal dottor Destouches alla stampa collaborazionista francese tra il 1940 e il 1944. È un cazzotto allo stomaco, diciamolo subito. Anche il lettore meno sensibile al politicamente corretto, infatti, avrà qualche giramento di testa nell'avere a che fare con un Céline «sorpreso che qualcuno, avendo una baionetta a disposizione, non ne faccia un uso illimitato», come dirà Ernst Junger. Sarebbe ovviamente una indebita edulcorazione quella che volesse stemperare le invettive céliniane degradandole a mero artificio retorico. Ma di sicuro si ha spesso l'impressione che Io scrittore ponga sul piatto gli argomenti più sulfurei per portare il discorso all'estremo, per stanare ipocrisie e trasformismi. Certe cose, infatti, «chi le scriveva allora? Nessuno. Chi baciava le ciabatte a Blum? Tutti. I blumisti di ieri sono gli hitleriani di oggi, pressappoco.e se cambia il vento, i comunisti di domani». Di fronte alle piccole viltà di chi cade sempre in piedi, Céline invoca coerenza fino al punto di rottura, chiedendo al prossimo l'estremismo come cartina di tornasole della autenticità. È un gioco pericoloso, però. E un bel po' sulfureo. Così facendo, l'autore del Voyage riuscirà per-sino a farsi censurare da alcune riviste collaborazioniste che pure non è che ci andassero leggeri su certi temi. Come quando, nel 1942, manderà a Je suis partout un articolo in cui chiederà di dividere la Francia in due: quella a nord della Loira, ariana e fascista, e quella a sud, "sovralgerica", meticcia ed ebraicizzante... Fa tuttavia bene Andrea Lombardi a porre in appendice una breve ma significativa antologia di poesie e prose antifasciste dell'epoca, dove l'invito ad ammazzare, sterminare, violentare, se possibile godendone luciferinamente, è ribadito con eguale enfasi e forse persino con un po' più di serietà. A Céline, rispetto a Louis Aragon, va semmai ascritto il merito di aver sparso parole di fuoco infischiandosene del senso della storia, della pretesa oggettività di un sistema filosofico, dello scintillio delle buone intenzioni. Oltre al fatto di non essersi meritato una stazione della metropolitanaa suo nome, cosa che invece è accaduta, a Parigi, al cantore della Gheppeù. Il poeta comunista, non a caso, attenderà il sol dell'avvenire senza fretta, nella sua lussuosa villa con parco di sei ettari. Céline e consorte, invece, avranno diversa fortuna. Della coppia, all'epoca buia dell'epurazione, ha tratteggiato questo gustoso - quanto amaro - ritratto Stenio Solinas, nella lunga introduzione al libro: «Lui la chiama urlando, e impreca se lei non risponde, lei gli replica per le rime, il pappagalloToto si intromette e a sua volta ripete le ingiurie del suo padrone... Per i vicini non è una musica paradisiaca, aggravata dal fatto che quando i cani si mettono ad abbaiare Céline non li zittisce, ma anzi li aizza, come se alle porte ci fosse il nemico...». Cani, gatti, pappagalli. Vestiti sempre più simili a stracci, uno spago per tener su i calzoni. È l'altra faccia dello scrittore maledetto. Che, del resto, continuerà fino alla fine a spiazzare chiunque deciderà di avvicinarsi alla sua controversa figura. «Chi è portato al compatimento - spiega ancora Solinas - si ritrova spesso e volentieri scavalcato dall'accorgersi che l'oggetto compatito in realtà calcola, sor-veglia, non sbaglia una mossa, piange a comando, insulta e si ritrae. Chi vorrebbe smascherare il vecchio gigione, scopre orgogli insospettabili, nobiltà di comportamenti, suprema indifferenza per "valori" allora (come oggi) alla moda: il successo, gli agi, le comodità...». L'inafferabilità del personaggio è narrata anche da Karl Epting, dal 1933 al 1944 direttore dell'Istituto tedesco di Parigi, che metterà giustamente l'accento sul «contrasto profondo tra la sua presa di posizione verso le collettività impersonali, per esempio, americane, inglesi, russe, ebraiche e massoniche, nella quale poteva essere di una crudeltà che, nei suoi discorsi, arrivava sino al parossismo, e il suo comportamento verso l'individuo concreto, uomo o animale che fosse, nel quale non ha mai cessato di restare il medico e il protettore». È questo che fa di Céline un oggetto sempre sfuggente, sempre indecifrabile. Un filantropo che aveva deciso di sputare in faccia al mondo. Un irregolare del pensiero, lingua di fuoco e braccia accoglienti. Senza uno straccio di stazione della metro a suo nome.


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