venerdì 16 dicembre 2011

Céline: un simpatizzante nazi difeso a qualche costo, di Kurt Vonnegut




Può uno scrittore liberal americano prendere le difese di un “simpatizzante nazista”, conscio di avere tutto da perdere e nulla da guadagnare da tale decisamente impopolare operazione? Ebbene, ciò può succedere se il difensore è Kurt Vonnegut, e la pietra dello scandalo Louis-Ferdinand Céline. E questo accade, precisamente, nella prefazione curata da Vonnegut per un’edizione americana in paperback dei tre romanzi della Trilogia del Nord di Céline, editi nel 1975-1976. Vonnegut riesce nelle poche pagine di questo suo scritto a toccare tutti i temi e gli aspetti fondamentali della vita e dell’opera di Céline: la rivoluzione della scrittura operata già attraverso il Viaggio al termine della notte, dove superò il linguaggio forbito e rigido – e fuori della vita – della scuola degli scrittori francesi di fine ‘800 impiegando piuttosto “il linguaggio più esauriente dei furbi e tormentati delinquentelli”, rivoluzione poi portata a definitivo compimento attraverso i suoi ultimi romanzi, da Pantomima per un’altra volta alla Trilogia; il rifiuto di Céline ai compromessi con i salotti borghesi e le camarille letterarie; il suo essere testimone diretto e forse il migliore narratore del “totale collasso della civiltà Occidentale in due guerre mondiali”; in ultimo, il rifiuto, pagato a carissimo prezzo, di Céline di mascherare la realtà della nostra umana esperienza, narrandola invece per quella che è, ad ogni costo, proprio come fece quell’Ignaz Semmelweis, il debellatore della febbre puerperale che regnava negli ospedali di Vienna a metà 1800 − la morte proprio laddove dovrebbe nascere la vita −, al quale lo studente di medicina Louis-Ferdinand Auguste Destouches dedicò la sua tesi di laurea; quel Dottor Semmelweis morto non già tra gli allori di una meritata fama di salvatore di vite, ma solo e pazzo, deriso dai suoi indegni colleghi. Proprio come il proscritto Céline a Meudon, rimasto fedele a entrambi: a Semmelweis e a quel giovane studente bretone di nome Destouches.


Andrea Lombardi
per satisfiction.me

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Un simpatizzante nazi difeso a qualche costo

di Kurt Vonnegut

Giungiamo ora al caso di uno scrittore che non solo talvolta pensò disgustosamente, ma che in certe occasioni agì secondo quegli stessi pensieri ripugnanti, e che, come molte persone mi hanno ribadito in maniera molto chiara, non potrà mai essere perdonato. Le persone trovano sovente illeggibili le sue opere, non per ciò che gli è capitato di dire in una data pagina, ma a causa di cose imperdonabili da lui dette o scritte altrove.
Lui stesso disse abbastanza spesso, in una maniera o nell’altra, come uomo anziano universalmente disprezzato e come criminale di guerra, di non avere nulla di cui scusarsi, e che il perdono sarebbe stato l’ennesimo insulto da parte degli stupidi.
Io non gli sarei piaciuto. I fatti ci dicono che non era profondamente innamorato di un qualsiasi essere umano. Amava il suo gatto, che portava perennemente qua e là come un bambino.
Si considerava quantomeno pari a qualunque scrittore vivente. Mi si dice che una volta disse del premio Nobel: “Ogni culo di vaselina in Europa ne ha uno. Dov’è il mio?”.
Eppure, compulsivamente, senza nulla da guadagnarci, e sapendo che numerose persone saranno portate a pensare che io condivida molte delle sue opinioni più vili, io continuo a dire che ci sono delle cose buone in quest’uomo. E il mio nome è vieppiù strettamente legato al suo nelle edizioni economiche Penguin dei suoi ultimi tre libri, Da un castello all’altro, Nord e Rigodon. Il mio nome è su di ogni copertina: “Con una nuova introduzione”, dice, “di Kurt Vonnegut, Jr.”
Quell’introduzione ai tre paperback suona così:

Non sapeva proprio come comportarsi in società, e con questo intendo che avendo molti privilegi formativi, arrivando a essere un medico, e avendo viaggiato in lungo e in largo in Europa e Africa e Nord America - non scrisse una sola frase che facesse intuire a persone similmente privilegiate che fosse una specie di gentiluomo.
Sembrava che non comprendesse che le pudicizie e le sensibilità aristocratiche, innate o apprese, concorrono a formare molto dello splendore della letteratura. Nella mia opinione, egli scoprì un più alto e più terribile ordine di verità letteraria ignorando il vocabolario ingessato delle gentildonne e dei gentiluomini e usando, invece, il linguaggio più esauriente dei furbi e tormentati delinquentelli.
Ogni scrittore è in debito con lui, e così chiunque altro interessato a discutere le vite nel loro complesso. Nell’essere così maleducato, dimostrò che forse metà di tutta l’esperienza, la metà animale, è stata nascosta dalle buone maniere. Nessuno scrittore o oratore onesto vorrà più essere forbito.
Céline è stato lodato per il suo stile. Lui stesso si prese gioco dell’espediente tipografico, ripetuto all’infinito, che rendeva ogni pagine da lui scritta come facilmente riconoscibile come sua: “Me e i miei tre puntini… il mio presunto stile originale!… tutti i veri scrittori ti diranno cosa pensarne!…”
Gli unici scrittori che ammirino questo stile abbastanza da imitarlo sono, per quanto ne so, articolisti di gossip. Gli piace come si presenta. Apprezzano il senso di urgenza che impartisce, volente o nolente, a qualunque brano giornalistico.
Con ben poco aiuto dalla sua eccentrica punteggiatura, Céline, secondo la mia opinione, diede nei suoi romanzi la miglior narrazione storica del totale collasso della civiltà Occidentale in due guerre mondiali, come la videro donne e uomini comuni e terribilmente vulnerabili. Questa storia dovrebbe essere letta nell’ordine in cui è stata scritta, poiché ogni volume rimanda consapevolmente a quelli precedenti.
E la camera di risonanza per quest’intricato sistema di echi attraverso il tempo è il primo romanzo di Céline, Viaggio al termine della notte, pubblicato nel 1932, quando l’autore era trentottenne. È importante che il lettore di un qualunque libro di Céline sia conscio di ciò che Céline sapeva sin troppo bene, che la sua carriera letteraria iniziò con un capolavoro.
I lettori, inoltre, potrebbero trovare la loro esperienza raddolcita e più intensa se considerassero che l’autore era un dottore che scelse di curare dei pazienti per lo più poveri. Per lui era comune il non essere pagato per nulla. Il suo vero nome, a proposito, era Louis-Ferdinand Auguste Destouches.
Magari non provava simpatia per i poveri e gli inermi, ma quel che è certo è che donò loro la maggior parte del suo tempo e della sua meraviglia. E non li insultò con l’idea che la morte, o anche l’uccidere, fosse in un certo qual modo nobilitante per chiunque.
Per inciso, lui e Ernest Hemingway morirono lo stesso giorno, il 1° luglio 1961. Entrambi erano eroi della prima guerra mondiale. Entrambi meritavano dei premi Nobel - Céline anche solo per il suo primo libro. Céline non lo ottenne, e Hemingway sì. Hemingway si uccise, e Céline morì di cause naturali.
Tutto quello che rimane sono i loro libri.
E il lento sbiadire dell’infamia di Céline.
Dopo anni di generoso e spesso brillante servizio alla letteratura e alla medicina, si rivelò come un feroce antisemita e un simpatizzante dei nazisti. Questo accadde alla fine degli anni ’30. […]
Le sue parole destano disprezzo di chiunque abbia sofferto a causa dell’antisemitismo. E così, sicuramente, l’amnistia e il proscioglimento che egli ricevette dal governo francese nel 1951. Prima di questo era stato punito con pesanti sanzioni pecuniarie e l’incarcerazione e l’esilio. […]
Poiché lui è stato punito dalla legge ed è morto, e che l’incubo nazista è adesso così lontano nel tempo, potrebbe essere infine possibile percepire una perversa sorta d’onore nel suo rifiutarsi di parlare di rimorso o di giustificarsi in qualsivoglia maniera. Altri collaboratori dei nazisti, dei quali ve ne furono decine di migliaia in Francia e milioni in tutta Europa, sono pieni di storie di come furono costretti a comportarsi male, e di arditi atti di resistenza e sabotaggio che commisero, a rischio delle loro vite.
Céline trovava questo tipo di mentire ridicolo in maniera oscena.
Mi viene un terribile mal di testa ogni volta che cerco di scrivere su Céline. Ce l’ho ora. Non ho mai mal di testa in nessun altro momento. […]
Céline sostenne di tanto in tanto di aver subito la trapanazione del cranio nella prima guerra mondiale, come conseguenza di una ferita alla testa.
In realtà, secondo la sua affascinante biografa Erika Ostrovsky (Voyeur Voyant, Random House, 1971), fu ferito alla spalla destra. E, nel suo ultimo romanzo, Rigodon, racconta di essere stato colpito in testa da un mattone durante un bombardamento aereo a Hannover. Così, si potrebbe affermare che egli trovava necessario giustificare in tal modo una mente ritenuta singolare da tante persone.
Egli stesso doveva occasionalmente essersi proprio nauseato della sua mente, e provo a ipotizzare quale fosse il suo difetto principale. Penso che mancasse dell’apparato attutente che la maggior parte di noi ha, e che ci protegge dall’essere travolti dall’assurdità della vita per come realmente è.
Così forse lo stile di Céline non è così arbitrario come pensavo fosse. Poteva essere inevitabile, se la sua mente era così indifesa. Per lui poteva non esserci nulla da fare, come se si trovasse sotto uno sbarramento d’artiglieria, se non inveire e inveire e inveire.
E le sue opere non possono essere chiamate un trionfo dell’immaginazione umana. Quasi tutto quello su cui inveiva stava realmente accadendo.
Nel momento in cui scrivo, l’autunno del 1974, è diventato evidente anche alla gente comune, con i loro apparati attutenti perfettamente funzionanti, che la vita è, in effetti, così pericolosa e implacabile e irrazionale come Céline ha affermato che fosse. […]
C’è almeno un importante documento di Céline che non è disponibile in inglese. E sarebbe pedante da parte mia ricordare che non fu scritto da Céline ma dal dott. Destouches. È la tesi di laurea di Destouches, “La vita e l’opera di Ignaz Philipp Semmelweis”, per la quale ricevette una medaglia di bronzo nel 1924. Fu scritta in un’epoca quando le tesi di medicina potevano essere ancora belle letterariamente, poiché l’ignoranza sulle malattie e il corpo umano richiedeva ancora alla medicina di essere un’arte.
E il giovane Destouches, in uno spirito da culto degli eroi, narrò della futile e scientificamente fondata battaglia combattuta da un medico ungherese di nome Semmelweis (1818-1865) per prevenire il diffondersi della febbre puerperale nelle corsie ospedaliere di maternità viennesi. Le vittime erano povera gente, poiché le persone con delle abitazioni decenti preferivano di gran lunga partorire in casa.
Il tasso di mortalità in alcune corsie era sbalorditivo - 25 percento o più. Semmelweis desunse che le madri venivano uccise dagli studenti di medicina, che spesso visitavano i reparti subito dopo aver sezionato cadaveri pieni di malattie. Riuscì a provarlo ottenendo che gli studenti si lavassero le mani con acqua e sapone prima di toccare una donna in travaglio. Il tasso di mortalità cadde.
La gelosia e l’ignoranza dei colleghi di Semmelweis, tuttavia, causarono il suo licenziamento, e il tasso di mortalità crebbe di nuovo.
La lezione imparata da Destouches da questa storia vera, secondo me, se non l’avesse già appresa da un’infanzia di stenti e un periodo nell’esercito, è che la vanità e non la saggezza reggono il mondo.


Kurt Vonnegut, A Nazi sympathizer defended at some cost, 1974.

Traduzione di Andrea Lombardi e Raffaello Bisso


mercoledì 14 dicembre 2011

Louis-Ferdinand Céline su Satisfiction.me!





Da venerdì 16 dicembre alle 10.00 è on line http://www.satisfiction.me/, il primo portale italiano rivolto esclusivamente agli amanti della lettura.
Ogni giorno inediti di grandissimi scrittori italiani e stranieri, classici e contemporanei. Si inizia con Robert Louis Stevenson, Kurt Vonnegut, Antonin Artaud, Jean Genet, Edgar L. Doctorow, Louis-Ferdinand Céline.
Satisfiction.me non sostituirà il Satisfiction di carta. Anzi: Satisfiction, già passato dal nuovo numero in libreria dal 15 dicembre da 32 a 48 pagine, da Febbraio 2012 diventa bimestrale. Sul web, la possibilità di leggere tutti gli arretrati con gli oltre 100 scrittori per la prima volta on line.

mercoledì 30 novembre 2011

Céline: il viaggio nella tenebra di un grande scrittore




Céline: il viaggio nella tenebra di un grande scrittore


Sabato 3 dicembre alle 17.30 nella Sala Conferenze della Biblioteca comunale Lazzerini (Via Puccetti 3 - Prato), in occasione del 50° anniversario della morte di Louis-Ferdinand Céline.


lunedì 28 novembre 2011

“Le sparse membra di Céline”, di Dominique de Roux






“Le sparse membra di Céline”
Il tempo per un’unica e sola lotta
Nell’ora in cui la miseranda situazione della letteratura francese ci costringe alla lunga marcia, solitari al fianco di altri solitari, sino alla fine, non per volerla ricostituire ma anzi contro essa, non imitiamo Céline, logorandoci sterilmente nell’impadronirci di una tale maestria.
Ascoltiamo Céline. Compromettiamoci senza mai rompere il nostri legami con la vita. Perché questo è il tempo per un’unica e sola lotta. La lotta della parola significante contro le parole, della volontà d’integrazione contro la potenza della disintegrazione, e qui sta il mistero supremo di Orfeo straziato dalle donne trace che sono le parole lasciate a loro stesse.
In Francia, siamo in territorio nemico. Noi saremo sempre e dappertutto in territorio nemico.
Sono cinque anni, che morì Céline il quale pareva, nel suo profondo, dimesso, agente e vittima di questo tempo di tutte le abolizioni.
Contro tutte le difficoltà, contro tutti i sistemi e i monopoli, Céline non ha mai cessato di mettere in gioco la sua opera. Ha perso la testa, al punto tale che nessuno lo può rivendicare come proprio. Attreverso la sua ordalia, egli ha creato la sua luce, e lui sa.
Allora gli scrittori che non vogliano sottomettersi alle parole d’ordine, alle macchinazioni della critica ufficiale, che lotteranno contro le leggi e la vile dittatura delle mode, che dimostreranno con la loro opera vivente, con la provocazione delle loro vite ­- contro i traditori incoscienti e i falsi testimoni di professione, contro la razza degli spiriti prostrati - costoro raggiungeranno le sparse membra di Céline, deposte nella terra il 1° luglio 1961, in questo deserto dei Tartari dove monta la guardia contro chi non giungerà mai. Lavoreranno così anche per l’aldilà della Rivoluzione, organizzando la strategia dell’Apocalisse in termini di vittoria.
Perché i tempi cambiano, e sono i tempi del Grande Cambiamento, quelli ora prossimi.
Fare chiarezza, cambiare tutto.
Fare chiarezza.
Céline l’ha fatta.

Dominique de Roux (1935-1977), 8 agosto 1966. Traduzione Andrea Lombardi.


martedì 22 novembre 2011

Bagatelle per un massacro Guanda falsi?



Comunicazione di servizio da girare anche ai céliniani di vs conoscenza: mi sa che su Ebay stanno circolando dei Bagatelle Guanda falsi (tipo il Bella rogna anastatica made in Napoli); infatti ho visto di recente alcune inserzioni di diversi venditori a prezzo "basso" (sui 100 Euro, mentre sappiamo che specie sui siti d'aste si va dai 200 in su) "compra subito"; descrizione simile e stesse condizioni (con tracce d'uso che mi sembrano artefatte)... non sono sicuro al 100%, ma fatevi mandare scan della cop, alette e una-due pagine di testo prima di eventualmente comprare...

mercoledì 16 novembre 2011

Céline e il caso delle «Bagatelle», di Riccardo De Benedetti





Postiamo su gentile concessione dell'autore i seguenti estratti dal libro Céline e il caso delle «Bagatelle»


Da p. 16 a p. 17
[...] ha senso per noi il rinnovarsi della domanda: perché non è possibile leggere le Bagatelles? Oggi. Di che natura è questa impossibilità? È davvero solo una faccenda giuridica? È forse morale? O solo letteraria? Di che natura è l’embargo che graverebbe su scritture come quella di Céline, che ci impediscono la rassicurante coincidenza tra verità del discorso morale e verità della storia così come essa si è imposta all’esperienza e alla valutazione dei contemporanei? La nostra Storia, la nostra contemporaneità. Bagatelles è, come avviene in qualsiasi testo antiebraico, una collazione di accuse e attribuzioni di colpa agli ebrei, con l’aggravante di utilizzare un linguaggio straordinariamente efficace e potente. Un testo nel quale si alternano affermazioni palesemente insostenibili e grottesche, insulti e agghiaccianti generalizzazioni, una girandola infernale di espressioni quasi sempre volgari e blasfeme, eppure composte e montate con un ritmo e una cadenza che neppure la più sapiente sceneggiatura moderna sarebbe in grado di proporre. Nulla ci è risparmiato dello scatologico e dello stercoraro; il basso ventre la fa da padrone e là dove sembra che non è al solo ebreo che ci si rivolge ci si accorge, con ancor più sgomento, che è solo per retorica digressione che s’insulta l’ariano non ancora perfettamente antisemita; che è solo per indicare meglio il vero obiettivo, per prendere meglio la mira, si direbbe. Basterebbero, tra decine di altre, queste righe: «E ora il film si occupa di noi, attenzione! Ariani dell’Intelligenza!... Attenzione! Contrasto! La nostra élite: intellettuali, nobiltà ariana, borghesia ariana, si dimostrano tutti assolutamente, radicalmente, grottescamente incapaci di capire una sola vigliacca parola delle rivendicazioni del popolo! Ah! È scoraggiante... ma è così!... Perversi, mostruosi egocentrici! Che schifosi! Irrimediabili! Che mostri... Che super-bruti!... Infiniti!... Ai margini di qualunque evoluzione... Conclusione! Questa “élite” ariana deve passar la mano agli Ebrei, e subito, e sparire!... C.Q.F.D. Implacabile decreto dell’Avvenire!... Bum! Bum!... Ritardano, sabotano, quei biechi, il meraviglioso slancio sociale, così evidente che è! Sboccio dei Soviet! Operai + Ebrei redentori, il Regno ebreo insomma: Allora?... A tempi nuovi! Uomini nuovi!... L’Ebreo, “uomo nuovo”! È una trovata...»
E lo stesso uso intensivo di quella parola con la maiuscola, Ariano, andrà preso più sul serio di quanto si sia fatto finora; il sospetto di trovarsi di fronte a un costrutto artificioso, a una delle tante idées reçues, lascito di una cultura diffusa e data per scontata, è fondato, già lo ricordava Maritain ai contemporanei di Céline. E se essere consapevoli di ciò non attenua affatto il potere dell’orrore che questo testo ci procura è altrettanto vero che colloca, credo correttamente, il suo discorso anche all’interno di una tradizione di pensiero nella quale l’idea di razza non è certo solo il frutto di un delirio paranoico, ma il sedimento, vario e articolato, di una molteplicità di discorsi scientifici e illuminati dai quali non era del tutto all’oscuro lo stesso Céline, uomo di formazione essenzialmente medica.


da p. 35 a p. 37

L’effetto della violenza libellistica il più delle volte è tale che la possibilità di confutarne le tesi viene meno. Però, ci sono momenti nei quali, senza tanti puntini, la scatologia viene sospesa e si formulano analisi così congegnate: «L’Ebreo non si integra mai, scimmiotta, abborraccia e detesta. Non può abbandonarsi che a un mimetismo grossolano, senza prolungamenti possibili. L’Ebreo, i cui nervi africani sono sempre più o meno di “zinco”, possiede solo un volgarissimo reticolo di sensibilità, per nulla elevato nella scala umana, come tutto ciò che proviene dai paesi caldi, precoce, appena sbozzato. Non è fatto per elevarsi molto spiritualmente, per andare molto lontano... L’estrema rarità dei poeti ebrei, d’altronde tutti rifriggitori di lirismo ariano... L’Ebreo, nato scaltro, non è sensibile. Non salva le apparenze che a forza di continue pagliacciate, simulacri, smorfie, imitazioni, parodie, pose, “cinegeismo”, fotografie, impapocchiamenti, arroganza. Nella sua stessa carne, per scuoterlo, non possiede che un sistema nervoso di negro dei più rudimentali, cioè un equilibrio da tanghero. L’Ebreo negro, incrociato, degenerato, sforzandosi nell’arte europea, mutila, massacra e non aggiunge nulla. Sarà costretto un giorno o l’altro a far ritorno all’arte negra, non scordiamolo mai. L’inferiorità biologica del negro o del semi-negro sotto i nostri climi è evidente. Sistema nervoso “spacciato”, espiazione della precocità, egli non può andare molto lontano...».
In questo passo è abbastanza evidente il debito verso una prosaica fin che si vuole «teoria dei climi e degli organismi che vi si adattano subendone l’influenza». «Espiazione della precocità»... è affermazione che il nostro Leopardi non avrebbe poi così disprezzato, visto che lo Zibaldone, sulla scorta delle sue letture francesi, mostra un interesse notevole alle influenze che il clima esercita sui caratteri dei popoli e delle nazioni, e sulla differenziazio- ne delle lingue. In Francia basterebbe citare il J.-J. Rousseau dell’Influence des climats sur la civilisation, sulla scorta del Montesquieu dell’Esprit des Lois, ma il tema è quasi un luogo comune assai dibattuto in tutto il Settecento francese e illuminista. Vi manca l’odio, si potrebbe obiettare; così come non viene esplicitata una gerarchia tra i diversi popoli (ma questo non è del tutto vero e l’Illuminismo francese non sarà certo esente dall’introdurre “valutazioni” gerarchiche); manca la passione antisemita (non sempre, Voltaire ne è tutt’altro che immune, per esempio), ma è altrettanto onesto ammettere che aver introdotto nell’ideologia elementi che fissano, in qualche modo e con considerazioni “materialiste”, i caratteri distintivi dei popoli al variare dei climi, può fornire ai tipi come Céline qualche elemento in più e far apparire non del tutto fuori controllo il suo linguaggio.
Oppure, ed è un altro dei suoi registri retorico-emotivi, Céline si anticipa il giudizio negativo e riparte all’attacco come se fosse una vittima. Per esempio quando espone in esergo questa frase vagamente lacrimevole: «Cosa volete che speri in mezzo a questi cuori imbastarditi, se non di vedere il mio libro gettato nella spazzatura? D’Aubigné». Se mai qualcuno considerasse plausibile ciò che è andato scrivendo sugli ebrei e la loro logica, questo suo modo di passare per vittima designata lo si potrebbe considerare ebraicissimo... una sorta di napoletano “chiagni e’ fotti”. Al che, verrebbe da dire, perché un tale sperpero di inchiostro, carta, bile e sangue marcio estesi e stirati come una pasta per pizza lunga 306 pagine quando se proprio ce l’aveva su con i suoi ebrei immaginari e fantasma- tici poteva utilizzare il ben più sintetico e italico cinismo?
Subito a seguire, dopo la citazione, una tirata contro lo standard da far impallidire Naomi Klein: «Lo Standard in ogni cosa è la panacea dell’Ebreo. Più nessuna rivolta da temere da parte di individui pre-robotici come noi. I nostri mobili, romanzi, film, le nostre macchine, il nostro linguaggio, l’immensa maggioranza delle popolazioni moderne sono già standardizzati. La civiltà moderna è la standardizzazione totale, anima e corpo, sotto gli Ebrei. Gli idoli “standard”, nati dalla pubblicità ebrea, non possono mai essere pericolosi per il potere ebreo. Mai idoli, a dire il vero, furono così fragili, così friabili, più facilmente e definitivamente dimenticabili, in un attimo di sfavore. L’adulazione delle folle avviene su comando dell’Ebreo».
Qualcuno potrebbe esclamare: perché gli ebrei? Perché ha rovinato tutto, sarebbe stato così bello senza quell’intercalare spasmodico e singhiozzante! Ha individuato alla perfezione ciò che più o meno negli stessi anni la Scuola di Francoforte avrebbe diffuso con gergo controllato e scientifico, sebbene non esente, tutt’altro, da stile. Céline, magari con un piccolo (dubito) sforzo di autocontrollo e rifinitura nelle fonti sarebbe forse riuscito a scrivere il suo Minima moralia. Non lo ha fatto. Non lo poteva fare, e per quanto si possano rintracciare per tutto Bagatelles elementi di questo tipo la cosa migliore che ci vien da dire è che, a forza di indicare ossessivamente il responsabile del massacro moderno dell’individualità creativa nell’ebreo, ha perso di vista l’adulatore delle folle che aveva sotto gli occhi, anzi poco oltre l’Alsazia. Imperdonabile.

da p. 45 a p. 47

La scrittura di Céline non è certo una teoria. Neppure, forse, una semplice invettiva; una polemica; un pamphlet. E se le Bagatelles fossero “solo” un romanzo? Allora potremmo forse far valere uno scarto tra racconto e realtà? Ma non quello tra racconto e suo significato, che continuerebbe a rimanere intollerabile. Non c’è mai coincidenza tra verità estetica e verità morale del romanziere. La verità del romanzo è la sua verità estetica, ma si crede che essa debba seguire da quella morale dell’Autore o perlomeno coincidervi e possibilmente non essere in opposizione. Ma questo non è sempre vero. Qual è la verità estetica di un pamphlet, la sua morale forse? Ma quanto leggibile? E davvero è leggibile una morale? Può ridursi a sola enunciazione?Queste domande richiamano un problema che lo stesso Céline affronta. Il fatto che sia il medesimo che ci poniamo nei suoi confronti può forse gettare un po’ di luce su uno di quei pochi aspetti che si riescono a isolare dalla sua ossessione antiebraica. In Bagatelles Céline cerca di demistificare il trucco morale della logica dei grandi organismi, quello, cioè, di agire sotto l’influenza di massime altruistiche che in realtà nascondono l’interesse privatissimo dei suoi componenti. Sono caratteristiche che Céline incontra lavorando per la Società delle Nazioni e che denuncerà al suo superiore Rejchmann, ricevendone risposte evasive e l’impossibilità pratica a modificare il funzionamento di questi organismi. I quali registrano, però, correttamente lo stato misero delle popolazioni operaie, i loro problemi igienici ecc. Il salto logico che muove Céline, sulla base dei suoi pregiudizi antisemiti, è quello di attribuire agli ebrei non solo la responsabilità di questo stato di cose, ma un’intima e solidale complicità con i meccanismi che promuovono il malfunzionamento della macchina sociale. È evidente che in Céline trovano accoglienza, al di là della conclamata professione di nichilismo esistenziale e cosmico, gli spiriti frustrati di ciò che rimaneva ai suoi tempi della fiducia nel discorso medico-sociale progressista. Il lavoro di medico di base a Parigi lo pone di fronte alla condizione di vita delle classi subalterne a cui, come prevedibile e in coerenza con la filantropia positivista, vanno offerti programmi di igiene pubblica efficienti ed efficaci. La salvezza per il tramite della medicina sociale, senza attraversare il fuoco della rivoluzione. Discorso al quale non era del tutto esente il pragmatismo del comunismo parigino se è vero che il comunista Henri Barbusse ospitò nella sua rivista le considerazioni medico-sociali di Céline, confermando la buona accoglienza che la sinistra francese riservò, almeno inizialmente, al Viaggio al termine della notte. La convivenza di queste che al nostro presente paiono contraddizioni irrisolvibili, e cioè l’ingenua credenza positivista nella capacità di individuare dispositivi medico-sociali, in fondo tecniche di intervento sulle grandi quantità umane ammassate nelle città, e l’apostrofe virulenta nei confronti di un popolo restio, per meri interessi egoistici e di razza, a fornire il supporto necessario al realizzarsi di questi programmi, è uno dei dati, credo, dal quale ha origine la violenza verbale di Céline contro gli ebrei. Come già osservato, nel suo antisemitismo non vi è traccia di un motivato odio religioso nei confronti dell’ebreo. Non è la religione ebraica a guastargli l’umore, o almeno, non lo è più di quanto Céline, per esempio, attribuisca al cattolicesimo la stessa responsabilità dell’ebreo nell’impedire il realizzarsi dell’utopica e modernissima igiene sociale tra le classi popolari. Una delle poche misure in grado di restituire dignità alla maggioranza della popolazione francese stremata dagli esiti della prima guerra mondiale e incapace di trovare di per se stessa motivi di dignità, è quella che prevede una seria prevenzione delle malattie polmonari. Céline, in questo senso, e dopo aver lavorato con il programma della Fondazione Rockefeller per la prevenzione della TBC, sottolinea e stigmatizza il tradizionale disprezzo del corpo instillato nella popolazione dal cattolicesimo che diventa così corresponsabile, al pari dell’organizzazione capitalista del lavoro, dello stato di profondo degrado nel quale versa la popolazione operaia di Parigi.




lunedì 7 novembre 2011

Alla scoperta di Céline: storia di Bagatelle per un massacro







Alla scoperta di Céline: storia di Bagatelle per un massacro


Lo scrittore maledetto si è portato addosso per tutta la vita il marchio dell’antisemitismo più rabbioso. Ma Riccardo De Benedetti cerca di interrompere il cortocircuito intellettuale



Louis-Ferdinand Céline (1894-1961), lo scrittore maledetto, il medico-scrittore che si è portato addosso per tutta la vita il marchio dell’antisemitismo più rabbioso. E di tutti i libri di Céline quello che più ha contribuito a creare la sua leggenda nera: Bagatelle per un massacro (1937), uno dei testi con la storia editorale più tormentata del Novecento.

Ingrandisci immagineOvvero un libro che si legge poco e di cui si parla molto, riducendolo unicamente a icona dell’odio razziale. Ecco il cortocircuito intellettuale che cerca di interrompere il saggio di Riccardo De Benedetti Céline e il caso delle “Bagatelle” (Medusa, pagg. 162, euro 14).De Benedetti, abituato ad occuparsi di autori scomodi e della loro influenza culturale (basti pensare al suo La chiesa di Sade del 2008), in questo caso ricostruisce nel dettaglio le vicende editoriali del volume ponendo grande attenzione all’edizione italiana Guanda del 1981 che venne rapidissimamente ritirata. Ed ecco che subito si sfata una leggenda da salotto. La censura ebbe ben poco a che fare con la scomparsa del pamphlet dagli scaffali. L’abbozzo di dibattito sull’antisemitismo, e qualche sdegno contro l’autore contò molto meno della questione dei diritti. La vedova di Céline, Lucette Destouches, si oppose allora come si oppone adesso alla ristampa dell’opera. La signora sostiene sia la volontà del defunto marito, che in effetti subito dopo la guerra decise di tenere questo virulento libello (che con L’École des cadavres e Les Beaux Draps forma una sorta di trilogia) ben lontano dai torchi. Ecco perché gli editori, consci che il libello proprio per il suo profumo sulfureo è alla fine assai appetibile, sono appostati in attesa che scadano i diritti. Quanto al dibattito che si scatenò in Italia nel 1981, De Benedetti segnala tra i tanti che si spesero nell’eterno minuetto del «sì è letteratura», «no è spazzatura ideologica» (Moravia la pensava così) un articolo di Bernard-Henry Lévy che venne pubblicato sull’Espresso. Ecco cosa scriveva il filosofo d’oltralpe: «È “sociale” come nessuno, questo filantropo confesso che ora propone... la “nazionalizzazione” del credito, delle assicurazioni, dell’industria. Sì, bisogna forse lasciargli un posto al dolce sole del progressismo. Perché Céline il mascalzone, Céline il razzista, Céline il collaborazionista rivendica, piaccia o non piaccia, la sua parte nella fondazione del socialismo alla “Francese”». Insomma, un bel ribaltamento che nessuno ha approfondito.Ma questo è solo uno degli esempi dei tanti modi di guardare a Céline che la damnatio memoriae e le beghe editoriali hanno fatto finire in un cantuccio, fuori dai riflettori dell’odio. Tra i tanti che De Benedetti enumera, basti ricordare tutti i sospetti del fascismo verso Bagattelle per un massacro (allora il titolo veniva scritto così) nella prima edizione italiana fatta da Corbaccio nel 1938. Non piaceva che il suo razzismo fosse così poco scientifico.


giovedì 27 ottobre 2011




La guerra insomma era tutto quello che non si capiva [...] Mai mi ero sentito così inutile come in mezzo a tutte quelle pallottole e le luci di quel sole. Una immensa, universale presa in giro.


Dal Viaggio. Nella foto, due corazzieri francesi aiutano un loro compagno ferito, St. Quentin, agosto 1914. Il corazziere Destouches doveva apparire così al tempo del suo servizio nel 12° reggimento corazzieri.

mercoledì 26 ottobre 2011

Riflessioni sul saggio di Germinario: Céline. Letteratura politica e antisemitismo, di Patrizio Paolinelli




Riflessioni sul saggio di Germinario: Céline. Letteratura politica e antisemitismo

di Patrizio Paolinelli


Le note che seguono si limitano ad esprimere dei dubbi e non elenco i motivi per i quali considero utile il lavoro di Germinario.

Annodare il filo nero che unisce l’insieme dell’opera céliniana (letteraria e saggistica) è un’operazione di estrema utilità. Germinario non ammette un doppio Céline e tutto il suo libro verte a dimostrare quest’inammissibilità. E’ vero, in Céline sussistono delle continuità. Ad esempio fino all’ultimo giorno della sua vita sarà ostile al melting pot. Ma c’è anche dell’altro, come in ogni persona. A me sembra che esistano più Céline ed è poco probabile che così non sia perché tutti noi moderni e postmoderni costruiamo la nostra realtà giorno per giorno (assumendo ruoli diversi) spesso in maniera incoerente. Eppoi, se non concediamo a Céline alcuna possibilità di riscatto cosa resta? La dimostrazione che è stato per un periodo filonazista e per tutta la vita poco tollerante. D’accordo, ma ci possiamo oggi accontentare di questa dimostrazione dinanzi all’affermazione di nuovi razzismi e nuovi autoritarismi? A mio giudizio la dannazione di Céline non riguarda il tempo che ha vissuto ma il nostro presente.

Il libro di Germinario sull’itinerario politico di Céline mi pare confermare la mia ipotesi di un Céline postmoderno (ipotesi che ho espresso nel libro: Nello specchio della modernità. Fotoritratti di Louis-Ferdinand Céline, Bonanno, 2010). Senza un ordine di proprietà e in maniera incompleta mi limito a un breve elenco di alcuni elementi rilevati dalla ricerca di Germinarlo. I seguenti:

· Il progresso è un’illusione.
· Avversione per il pluralismo politico.
· Individualismo innato.
· Le classi non esistono.
· Culto del corpo.
· Culto della bellezza.
· Plagio.

Sono tutti elementi tipicamente postmoderni e nient’affatto esclusivi dell’estrema destra, ma diffusi nella società e in molte comunità intellettuali. Due esempi: 1) i sociologi oggi si astengono rigorosamente dal parlare di progresso, anzi molti affermano che è un’ideologia morta e sepolta; 2) in quanto al pluralismo politico mi pare che oggi l’assolutismo neoliberista abbia fatto davvero piazza pulita di ogni reale alternativa al suo modello sociale (che resta quello capitalista).

E passiamo al Céline politico. Procedendo sempre per punti.

Intanto le svolte: al Céline impolitico del Voyage succede il Céline antipolitico del Mea Culpae poi il Céline tutto politico di Bagatelle. Direi che si tratta di balzi tipicamante post-moderni. Ma direi anche che attribuire a Céline un forte acume politico mi pare concedergli un po’ troppo. Tant’è che non farà alcuna carriera politica. Insomma mi pare un dato di fatto che Céline non possieda grandi capacità politiche, anzi molto poche. Se poi teoricamente era pure un plagiario come Germinario sostiene non resta neanche l’ideologo. E d’altra parte, lo stile gridato dei libelli non basta a fare di Céline un teorico della politica.

È evidente che biografia e storia si sposano, come in chiunque di noi. Ma in Céline il dato biografico a me pare prevalere su quello politico. Tant’è che nonostante i libelli antisemiti resterà politicamente isolato (per sua fortuna). Non pare proprio che i nazisti tedeschi lo abbiano considerato un punto di riferimento. Sicuramente lo è stato per alcuni. Ma neanche nel suo paese ha trovato gran seguito.

Come Germinario illustra, Brasillach critica pesantemente Bagatelle affermando che alla fin fine mette in cattiva luce gli antisemiti. Non è una prova che Bagatelle, in quanto enciclopedia di invettive, è più un testo umorale che politico? Se si considera poi che i pamphlet sono stati scritti un quattro e quattr’otto e che i dati quantitativi riportati da Céline sulle presunte malfatte degli ebrei non hanno il benché minimo riscontro statistico il Céline politico si riduce a poca cosa nonostante il successo di Bagatelle e l’ammirazione di alcuni circoli dell’estrema destra.
Non sto contestando la ricostruzione di Germinario. Dico solo che se Bagatelle, La scuola dei cadaveri e la Bella rogna non portassero la firma di Céline sarebbero caduti nel dimenticatoio come tanti altri pamphlet dello stesso tenore pubblicati in Francia negli anni ’30 e ’40 (osservazione che lo stesso Germinario fa all’inizio del suo saggio). Aggiungo che Céline va problematizzato e non semplicemente condannato perché era preso dall’ideologia ariana e (per un periodo) filonazista. Che dire del Céline antihitleriano del dopoguerra? Che dire del Céline che sempre nel dopoguerra definisce gli ebrei padri della nostra cultura? Semplicemente un opportunista? In parte è vero ma non basta se non separiamo il Céline politico dal Céline uomo comune. In altre parole, condannare Céline senza appello paradossalmente contribuisce a mitizzarlo (e dunque a non comprenderlo). Nel mio libro tento di ricondurlo a quello che è: un individuo ambiguo, contraddittorio, pieno di problemi irrisolti, opportunista, bugiardo fino all’inverosimile, politicamente superficiale. Il che non significa assolverlo dai suoi errori. Ma mi chiedo: siamo così sicuri che dosi di intolleranza totale non siano presenti nel nostro tempo? Alcuni esempi. La dittatura della pubblicità, il pensiero unico del consumismo, la violenza inenarrabile sulla natura.

A più riprese Germinario riporta brani in cui Céline si lamenta del fatto che nessuno lo segue nella sua crociata antisemita e totalitaria. Certo, perché secondo lui la Francia è ebraizzata, massonica, dreyfusarda e antirazzista. Ma questo non costituisce un dato di fatto sulla scarsa incidenza politica di Céline? Un generale senza esercito, un profeta che grida nel deserto, per Jünger un megalomane mezzo matto.

A un certo punto della sua analisi, riferendosi al percorso politico di Céline, Germinario parla di doppia rottura epistemologica. Sarò riduttivo ma più semplicemente direi che Céline cambia opinione. Céline non era un politico né un teorico della politica. Per Germinario poi era un plagiario inserito in una tradizione antisemita di lungo corso. Non inventa nulla (lo stesso Germinario parla di un célinismo avant la lettre). D’accordo, rompe con il nazionalismo e la germanofobia di Maurras. Ma non è certo l’unico. Sul piano politico i libelli non sono che pessimo giornalismo. Pessimo giornalismo intervallato da toccanti pagine letterarie.

Nel suo studio Germinario tenta di dimostrare una compattezza del pensiero politico céliniano che presuppone un pensatore lucido e politicamente navigato. Un cavallo di razza insomma. E’ il caso di Céline? A me sembra che politicamente parlando Céline sia un ronzino. Magari coerente, magari di momentaneo successo, forse, in virtù del suo impareggiabile stile, un classico dell’antisemitismo ad oltranza come Germinario afferma, ma pur sempre un ronzino. Se così non fosse come si spiega che non sia diventato né un ideologo universalmente riconosciuto né un leader con un seguito popolare? Eppure Céline aspirava a questi ruoli. Ma il fatto di non averli conseguiti non dà la conferma del suo scarso talento politico? Il che naturalmente non giustifica i danni compiuti con i suoi libelli.

L’arcaismo politico di Céline connesso al suo progressismo letterario spiazza non poco. Germinario risolve questo spiazzamento affermando che novità della lingua e novità politica (i fascismi) si reggono a vicenda. Vero. Ma il cerchio si chiude qui? Non c’è dell’altro? Il Céline che nei pamphlet scrive pagine di poesia e pagine di furore omicida non ci segnala un terremoto linguistico? E questo terremoto non colpisce almeno un poco tutti noi? Questa parola che per il solo fatto di essere pronunciata cade negli abissi annullandosi in quanto principio dell’umano non ci pone degli interrogativi? E questa stessa parola che a un certo punto risorge dalla morte che si è data non ci dice che alla fine Céline altro non era che un uomo profondamente disorientato e preda di paure incontrollate? Non sembra un uomo che circola ancora oggi tra noi rendendo possibili vecchi e nuovi razzismi, vecchi e nuovi autoritarismi? Per tutti questi interrogativi penso che non basti liquidare Céline con una pur netta e inevitabile condanna politica. E’ necessario che diversi punti di vista si incrocino per formulare nuove analisi capaci di spiegare il tempo presente. E la parabola di Céline ci può essere di molto aiuto.

domenica 23 ottobre 2011

Le avventure di Céline raccontate dal suo gatto, Bébert: Le chat de Louis-Ferdinand Céline di Frederic Vitoux su Venerdì di Repubblica




Era un tigrato di dimensioni ovine. Ma capace di acrobazie alla Scaramouche. Un trovatello scaltro e goloso come un picaro – però scudiero ad altissima fedeltà. Si chiamava Bébert. A Montmartre visse una gioventù bohèmienne, tra il vagabondo e l’aristogatto, lungo le grondaie e i marciapiedi di Parigi. Frequentò star del cinema, romanzieri, drammaturghi. Durante la guerra sfuggì alle persecuzioni razziali. Sgusciò per la Germania carbonizzata e prossima all’Anno Zero – incrociando gerarchi in fuga, collaborazionisti allo sbando, tutto un demimonde di ex tribuni, giornalisti collusi, maitresse al seguito, parecchi bastardi e qualche povero cristo. Sempre appresso a Louis-Ferdinand Céline, lo scrittore – e dunque il padrone – più incomodo del Novecento.
A mezzo secolo dalla morte del Docteur Destouches (il vero nome di Céline, 1894-1961), in Francia rispuntano vecchie polemiche e fioccano nuove biografie. Ma torna in libreria anche Bébert – la singolarissima vita del gatto di Céline uscita nel 1976 da Grasset. L’ha scritta Frédéric Vitoux, critico, romanziere, pioniere negli studi célininiani, nonché titolare della poltrona numero 15 dell’Académie Française. Raccontare gli uomini illustri attraverso gli animali che ne accompagnarono l’esistenza è diventato un filone fortunato quanto, spesso, un po’ stucchevole. Però il libro di Vitoux dribbla le blandizie della moda. Perché è stato concepito in tempi non sospetti. E perché non resta intrappolato nel voyeurismo aneddotico. D’altronde, Bébert non è un comprimario qualunque nella traiettoria di Céline. Ma, in anni cruciali e tremendi, diventa per lo scrittore «modello, specchio, alter ego. Personaggio a pieno titolo degli ultimi romanzi. Lo vediamo apparire in Nord e Da un castello all’altro, fino a Rigodon» rammenta Vitoux, di passaggio a Roma. Bébert è il liquido di contrasto che svela le violente incoerenze di Céline, che ne demistifica allucinazioni e paranoie: «Quando il gatto entra in scena, nella scrittura riaffiora un minimo di verità. Appena si allontana, tornano deliri e menzogne».Era un randagio della regione parigina, poi raccolto dalla Protezione Animali e messo in vendita nel megastore La Samaritaine. Ad acquistarlo, nel 1935, è Robert Le Vigan, divo del cinema francese tra le due guerre (accanto a Jean Gabin in film quali Il porto delle nebbie o La bandera) e, in seguito, pimpante collaborazionista. Sorta di Osvaldo Valenti in salsa pétainista.L’attore fece dono del gatto a Tinou, una figurante algerina conosciuta sul set, che sarebbe diventata sua moglie. Infelicemente. Nel giro di pochi anni la coppia smotta. E la Francia pure. I nazi sfondano. Si prendono tutto. Mettono su il governo-transgenico di Vichy. Morale: il tigrato si ritrova all’abbandono. «O almeno così credevo» sorride Frédéric Vitoux. «Quando il libro era in uscita, venni contattato da Tinou, l’ex di Le Vigan. Era furente. Siccome avevo scritto che trent’anni prima s’era sbarazzata del gatto, voleva trascinarmi in giustizia!». Non lo fece. Ma tanto basta per confermare che Bébert è di quelle bestie che catalizzano le passioni. Céline e sua moglie Lucette, insegnante di danza classica, lo adottano nel 1942. Abitano al numero 4 della rue Girardon, proprio di fronte al Moulin de la Galette. Con i coniugi Le Vigan sono vicini di casa e compagni di merende nella Parigi imbrunita dell’occupazione. Mezzo domestico, mezzo girovago, il gatto assiste agli allenamenti di Lucette in calzamaglia, passeggia coi padroni sui boulevard, riprende peso. Ma ancora una volta la pacchia dura poco.Anno 1944: alla vigilia dello sbarco alleato in Normandia, per Céline si mette male. Tra minacce di vendetta, Parigi gli si stringe al collo come un cappio. Tecnicamente, lui non è mai stato un collaborazionista attivo, un galoppino a libro paga dei tedeschi – come più tardi gli verrà sputato in faccia da Jean-Paul Sartre. Però, negli anni Trenta, ha scritto brutali pamphlet razzisti che, nel clima da repulisti della Liberazione imminente, possono costargli caro: il carcere – alle brutte la fucilazione. Céline antisemita? Sì. Senza se e senza ma. «Antisemita per formazione, per discendenza piccolo-borghese» ricorda Vitoux. «Eppure nei romanzi non c’è traccia di ebrei stereotipati come, ad esempio, in Simenon o Mauriac». Del resto, reduce traumatizzato e pluridecorato della Grande Guerra, il dottor Destouches «detestava i tedeschi. Il suo ideale era l’Inghilterra». La Londra dei bassifondi promiscui e libertari esaltata in Guignol’s band.Già, ma nel ‘44, queste son patetiche sottigliezze: letteratura. Il 17 giugno, intabarrati come Totò e Peppino, e con denari nascosti fra le cuciture, Céline e Lucette saltano su un treno alla Gare de l’Est. Destinazione: Germania. Il gatto è con loro. Chiuso in una sporta e munito di passaporto sanitario rilasciato dai veterinari della Wehrmacht all’Hotel Crillon. Esile protezione. Perché – ma nessuno lo sa ancora – al di là della frontiera, il Reich in rovina ha decretato la soluzione finale per tutti gli animali «non di razza e inabili alla riproduzione».Ora, Bébert è un bastardo. E, dopo le scorribande libertine per Montmartre, è stato pure castrato. Quindi: un sans-papiers. A rimorchio di una coppia allo sbaraglio. «In realtà» precisa Vitoux, «Céline e Lucette non volevano rifugiarsi in Germania, ma da lì raggiungere la Danimarca dove avevano messo da parte dell’oro». Il transito durerà dieci mesi. Diventando quel viaggio allucinante che è fonte di deliri e poesia negli ultimi romanzi céliniani.Louis-Ferdinand, Lucette, Bébert: il terzetto rimbalza, striscia, scappa da Baden-Baden a Berlino, da Lipsia ad Augusta. A Ulm, gatto e padroni assistono ai funerali di Rommel. Ad Hannover zigzagano sotto un’alluvione di bombe. Uno scoppio scaraventa lontano la borsa con dentro Bébert: il gatto ne esce allibito, ma incolume. Però il vero climax è a Sigmaringen, la cittadina del Baden-Wuttemberg dove i nazisti hanno stipato vertici e manutengoli della Francia filo-hitleriana. Oltre duemila persone. Da Pétain a Laval, passando per l’ideologo Doriot e giù tutti i gregari a seguire. Sigmaringen è la Salò del collaborazionismo. Céline la ritrae senza la ferocia sadiana di Pasolini «ma con toni infernali, grotteschi alla Bosch, o Bruegel». Perciò scrive: «Diresti un’operetta (...) città leccata, un po’ bomboniera, mezza-pistacchio (...) tutto in stile barocco-crucco». Una Götterdämmerung di paccottiglia. Di quel ridicolo, Destouches è cronista ma anche tassello. I gerarchi lo sfottono perché s’è presentato all’Apocalissi col gatto. Lui abbozza. Cura i malati di scabbia. Bébert è un cencio. Grufola a caccia di cibo. Gli sganciano rape. Vorrebbe i wurstel. Ma quelli se li pappano gli uomini.A fine marzo ‘45, coniugi e tigrato approdano in Danimarca. Però Céline viene arrestato. Passa in prigione un anno e mezzo. In galera si ammala. A riflesso del padrone, anche il gatto sta male. Gli asportano un tumore. Se la cava. Come Céline. Che torna libero ma confinato – con moglie e felino – in una baracca sul mar Baltico. Grazie a cavilli ed astuzie legali, lo scrittore rientra in Francia nel 1951. Assieme a un drappello fra cani e gatti. Si piazzano tutti nella villetta-eremo di Meudon – porte di Parigi. Dove Bébert muore l’anno dopo. D’un nuovo cancro, ma stavolta generalizzato. È una creatura sfinita, «a corto di respiro e di speranza, sdentato e inappetente». Ha 16 anni. Ha assistito al suicidio di un mondo. Scrive Céline: «È morto qui, dopo tanti di quegli incidenti, nascondigli, bivacchi, ceneri, tutta l’Europa...». Ma è morto «agile e aggraziato, impeccabile». D’altronde, fra le macerie della Storia aveva mantenuto una sola priorità: l’igiene. Nel mezzo della catastrofe si leccava, perché: la toilette, avant tout.In Céline non c’è alcuna umanizzazione dell’animale. Bébert rimane sigillato nel mistero, «nell’irriducibile estraneità dei gatti» osserva Vitoux. Davanti ai grandiosi sproloqui dello scrittore, il tigrato rappresenta il silenzio, l’eleganza muta, l’antitesi del linguaggio. Per Destouches, che pure ne smitraglia a raffica, «le parole sono il massimo della miseria. Sono veicolo di malvagità e bugie. Solo il gatto è sincero. Non parla, dunque non mente».Ciò detto, restano tutte da raccontare vita, reazioni, emozioni degli animali durante le guerre moderne. Nel mirabile Storia naturale della distruzione, W.G. Sebald riferisce degli elefanti in fiamme che, sotto il bombardamento dello zoo di Berlino, lanciano alti barriti e si squagliano tra ossa e frattaglie. Nel film Underground, Kusturica ha mostrato le scimmie e i pachidermi impazziti nel fuoco dello zoo di Belgrado. Ma quanto accaduto nel «bioparco» di Saddam, o ultimamente tra i leoni e gli ippopotami di Gheddafi, aspetta ancora una parola. Magari alla Céline. Che, nel ‘52, dedicava l’imperdibile Pantomima per un’altra volta – appena ripubblicato da Einaudi – «Agli animali, ai malati, ai prigionieri».


di Marco Cicala, Venerdì di Repubblica, 21 ottobre 2011.


(nella foto, la copertina della 1a edizione del libro)

Céline e quelle lettere maledette, recensione di "Céline ci scrive" su Rinascita






Céline e quelle lettere maledette

di Angelo Spaziano


Per i tipi del Settimo Sigillo è da poco in libreria il saggio “Céline ci scrive - Le lettere di Louis-Ferdinand Céline alla stampa collaborazionista francese, 1940-44”, a cura di Andrea Lombardi, con prefazione di Stenio Solinas.
L’opera sarà presentata oggi, alle 18 e 30 a Roma, nello spazio culturale “Foro 753”, in via Beverino 49, a Roma. Già la veste tipografica del testo è, di per se, una chicca. Non meno importante è il fatto che in questo volume vengono tradotte per la prima volta in italiano le lettere “maledette” di Louis-Ferdinand Destouches, alias Celine. Missive che il celebre letterato francese inviò ai vari organi di stampa della Repubblica di Vichy nel periodo della II guerra mondiale compreso tra l’arrivo dei tedeschi a Parigi e la vigilia che precedette la caduta del Terzo Reich. Nella prefazione Stenio Solinas tratteggia l’intera vicenda biografica dell’autore transalpino con una prosa che sa di poesia. Al tempo stesso il noto giornalista dà al lettore a secco di notizie tutte le informazioni utili sul carattere, gli ideali e i sentimenti dell’uomo di Courbevoie.
Caratteristiche che fanno dello scrittore d’oltralpe un soggetto stilisticamente non omologabile, né tantomeno “inquadrabile” in alcuna corrente letteraria di definizione accademica. Céline è Céline, insomma, un cane sciolto, uno spirito libero, un’anima inquieta e tormentata, individualista, anarchico, nichilista, razzista, rivoluzionario, antiborghese, antibolscevico e ferocemente ostile pure ai “terroni” di casa. Fino al punto da augurarsi la secessione della parte nord dell’Hexagone da quella sud, “meticcia”, “papista” e “massonica”. Il saggio introduttivo ci offre, inoltre, un rapido excursus sulle opere dello scrittore e ci fa comprendere perché è necessario leggerlo. Il fatto è che il burbero uomo di cultura è stato il primo, se non l’unico, che già agli albori del XXI secolo aveva individuato nella penosa decadenza politica, culturale e morale francese innanzitutto e dell’Europa in secondo luogo le tare dello spirito che attualmente avvelenano la nostra società e l’occidente tutto. Nell’introduzione che segue la prefazione, Andrea Lombardi scrive infatti che, proprio come vaticinava Céline: “I sistemi democratici, le istituzioni democratiche, sono diventati dei circhi equestri, delle palestre di buffoneria a buon mercato”.
E questo convincimento è presente ove più ove meno un po’ in tutte le opere dell’autore di “Viaggio al termine della notte”. Già il continuo affiancare il linguaggio popolaresco a quello erudito, unito al frequente uso di iperboli ed ellissi, impone Louis-Ferdinand come un innovatore nel panorama culturale transalpino e non solo. Tuttavia egli risulta a tratti insopportabile, offensivo, spudorato, oltraggioso, irriverente. Troppo diretto, troppo poco diplomatico, troppo privo d’orpelli intellettuali per piacere ai sensibili palati del pensiero omologato. Le sue lettere hanno la sagacia ed il mordente d’un Seneca e, soprattutto, sono “docce gelate” potenzialmente letali per le tiepide, tremule “animucce” del culturame politicamente corretto di stampo gallico. Per Céline null’altro che una manica d’ignavi e soppiattoni. Gente senza onore che, presagendo la fine del lungo conflitto che travagliava la Francia, dopo aver inneggiato all’occupante tedesco, già si preparava a fare il “salto della quaglia” in soccorso del vincitore angloamericano. Nell’epistola al “Je suis partout” del 15 giugno 1942, ad esempio, il castigamatti prende spunto dalla censura che ancora mette all’indice il suo romanzo “Beaux draps” per descrivere la nazione d’Oltralpe come un “continuum” spaziotemporale di vigliaccheria cronica e piaggeria inveterata. Una realtà affetta da una mortificante vocazione al conformismo che attraversa lo spirito della nazione celtica da un governo all’altro, da uno pseudoidealismo all’altro, svendendola per un piatto di lenticchie alla lobby che in quel momento risulta la più potente o la più di moda. Così come, in un’altra lettera inviata alla redazione del collaborazionista ”Je suis partout” del 9 luglio 1943, l’autore sembra tracciare con decenni d’anticipo sui tempi il deprimente identikit della nostra “trista, omologata, opulenta, borghese società”.
Proprio alla luce di tutto questo anticonformismo rancoroso e inconciliabile con il buon senso un tanto al chilo e con la politica accomodante e accattona dei guitti della partitocrazia, Céline viene ancora ostracizzato e bandito dai salotti letterari e dalle aule accademiche di Marianna. Non per niente Lombardi, riallacciandosi alla presentazione di Solinas, stigmatizza come a tutt’oggi non si riesca a trovare un solo critico sufficientemente onesto che sappia parlare dello spiritaccio di Clichy senza etichettarlo come “anti” o come “pro”. Nessuno, insomma, che valuti a pieno le capacità letterarie e stilistiche di un autore che, per quanto “maledetto” e scomodo, ha saputo spaziare da maestro nell’universo letterario novecentesco francese ed europeo, veleggiando di bolina dai pamphlet più ironici ai romanzi più puramente intimistici. Infatti, malgrado il suo innato senso della protesta, il caratteraccio impossibile e l’inguaribile misantropia, lo scontroso medico dei poveri riesce a ritrarre la realtà umana delle desolate periferie parigine con parole che sembrano stilettate al curaro, certo, ma anche con accenti dolci e delicati, quasi poeticamente nostalgici. La lettura di questo carteggio così “doloroso”, così sconsolato e inconsolabile, è agevolata anche dalla valida traduzione di Valeria Ferretti, fedele al testo originale e, insieme, elegante nella forma italiana. Interessanti i dagherrotipi dell’epoca che fungono da piacevole intervallo tra lettera e lettera. Spunti su cui meditare provengono anche dai tre articoli conclusivo-riassuntivi che completano il volume: “Il dialogo franco-tedesco: il caso L.F. Céline”, di Joseph Jurt; “L’altra parte della barricata”, di Andrea Lombardi; “Céline non ci ama” di Karl Epting. Intervistato da Claude Sarrante di “Le Monde” Céline avrà un giorno a dire: “Solamente a noi è stata data la parola. Questo fa l’uomo politico, lo scrittore, il profeta. La parola è orribile… ma arrivare a tradurre quell’emozione è così difficile che lei neppure se lo immagina, è sovrumano, è un’abilità che uccide”. E lui infatti risultò essere la prima vittima di se stesso e del suo dannato talento, indomito e senza compromessi.

mercoledì 19 ottobre 2011

Le Procès Céline su Arte



Cinquante ans après sa mort, Louis-Ferdinand Céline n'en finit pas de susciter la controverse. Le génie exonère-t-il de l'ignominie ? Un voyage étourdissant dans la nuit célinienne, où l'accusé dialogue avec des adversaires et défenseurs de poids.

Un documentaire d'Antoine de Meaux et Alain Moreau

http://videos.arte.tv/fr/videos/le_proces_celine_extrait_1_-4200400.html

martedì 18 ottobre 2011

Presentazione del libro CÉLINE CI SCRIVE @ Foro 753, sabato 22 ottobre ore 18.30




SABATO 22 OTTOBRE 2011

dalle ore 18.30


CÉLINE CI SCRIVE!


Presentazione del libro: CÉLINE CI SCRIVE



con:



- Enzo CIPRIANO Ed. Settimo Sigillo

- Roberta DI CASIMIRRO Commissione Scientifica Biblioteche di Roma e giornalista RAI

- Andrea LOMBARDI Curatore del testo

- Elena BARLOZZARI Foro753

a seguire:


Rappresentazione Teatrale CÉLINIANA

Incontro di Parole e Musica da un'idea di M.M. MERLINO

a cura del Laboratorio Teatrale SetteCinqueTre

a seguire APERITIVO

martedì 4 ottobre 2011

"Céline ci scrive" recensito da Adriano Scianca sul "Secolo d'Italia"...





Le lettere di fuoco del sulfureo Céline

In un libro le missive dello scrittore ai giornali "collabò"

di Adriano Scianca


Una Feltrinelli o una Einaudi qualsiasi, probabilmente, avrebbero sorvolato. Tagliuzzato, selezionato. Epurato. Perché lo scandalo va coltivato in serra, controllato, reso potabile o altrimenti nascosto sotto al tappeto. Settimo Sigillo, invece, ha avuto il coraggio della verità. Ed è così che, proprio per i tipi della casa editrice romana, è potuto arrivare sugli scaffali delle librerie italiane questo incredibile Céline ci scrive (a cura di Andrea Lombardi, pp. 240, € 25,00), raccolta senza censure e senza attenuazioni delle lettere scritte dal dottor Destouches alla stampa collaborazionista francese tra il 1940 e il 1944. È un cazzotto allo stomaco, diciamolo subito. Anche il lettore meno sensibile al politicamente corretto, infatti, avrà qualche giramento di testa nell'avere a che fare con un Céline «sorpreso che qualcuno, avendo una baionetta a disposizione, non ne faccia un uso illimitato», come dirà Ernst Junger. Sarebbe ovviamente una indebita edulcorazione quella che volesse stemperare le invettive céliniane degradandole a mero artificio retorico. Ma di sicuro si ha spesso l'impressione che Io scrittore ponga sul piatto gli argomenti più sulfurei per portare il discorso all'estremo, per stanare ipocrisie e trasformismi. Certe cose, infatti, «chi le scriveva allora? Nessuno. Chi baciava le ciabatte a Blum? Tutti. I blumisti di ieri sono gli hitleriani di oggi, pressappoco.e se cambia il vento, i comunisti di domani». Di fronte alle piccole viltà di chi cade sempre in piedi, Céline invoca coerenza fino al punto di rottura, chiedendo al prossimo l'estremismo come cartina di tornasole della autenticità. È un gioco pericoloso, però. E un bel po' sulfureo. Così facendo, l'autore del Voyage riuscirà per-sino a farsi censurare da alcune riviste collaborazioniste che pure non è che ci andassero leggeri su certi temi. Come quando, nel 1942, manderà a Je suis partout un articolo in cui chiederà di dividere la Francia in due: quella a nord della Loira, ariana e fascista, e quella a sud, "sovralgerica", meticcia ed ebraicizzante... Fa tuttavia bene Andrea Lombardi a porre in appendice una breve ma significativa antologia di poesie e prose antifasciste dell'epoca, dove l'invito ad ammazzare, sterminare, violentare, se possibile godendone luciferinamente, è ribadito con eguale enfasi e forse persino con un po' più di serietà. A Céline, rispetto a Louis Aragon, va semmai ascritto il merito di aver sparso parole di fuoco infischiandosene del senso della storia, della pretesa oggettività di un sistema filosofico, dello scintillio delle buone intenzioni. Oltre al fatto di non essersi meritato una stazione della metropolitanaa suo nome, cosa che invece è accaduta, a Parigi, al cantore della Gheppeù. Il poeta comunista, non a caso, attenderà il sol dell'avvenire senza fretta, nella sua lussuosa villa con parco di sei ettari. Céline e consorte, invece, avranno diversa fortuna. Della coppia, all'epoca buia dell'epurazione, ha tratteggiato questo gustoso - quanto amaro - ritratto Stenio Solinas, nella lunga introduzione al libro: «Lui la chiama urlando, e impreca se lei non risponde, lei gli replica per le rime, il pappagalloToto si intromette e a sua volta ripete le ingiurie del suo padrone... Per i vicini non è una musica paradisiaca, aggravata dal fatto che quando i cani si mettono ad abbaiare Céline non li zittisce, ma anzi li aizza, come se alle porte ci fosse il nemico...». Cani, gatti, pappagalli. Vestiti sempre più simili a stracci, uno spago per tener su i calzoni. È l'altra faccia dello scrittore maledetto. Che, del resto, continuerà fino alla fine a spiazzare chiunque deciderà di avvicinarsi alla sua controversa figura. «Chi è portato al compatimento - spiega ancora Solinas - si ritrova spesso e volentieri scavalcato dall'accorgersi che l'oggetto compatito in realtà calcola, sor-veglia, non sbaglia una mossa, piange a comando, insulta e si ritrae. Chi vorrebbe smascherare il vecchio gigione, scopre orgogli insospettabili, nobiltà di comportamenti, suprema indifferenza per "valori" allora (come oggi) alla moda: il successo, gli agi, le comodità...». L'inafferabilità del personaggio è narrata anche da Karl Epting, dal 1933 al 1944 direttore dell'Istituto tedesco di Parigi, che metterà giustamente l'accento sul «contrasto profondo tra la sua presa di posizione verso le collettività impersonali, per esempio, americane, inglesi, russe, ebraiche e massoniche, nella quale poteva essere di una crudeltà che, nei suoi discorsi, arrivava sino al parossismo, e il suo comportamento verso l'individuo concreto, uomo o animale che fosse, nel quale non ha mai cessato di restare il medico e il protettore». È questo che fa di Céline un oggetto sempre sfuggente, sempre indecifrabile. Un filantropo che aveva deciso di sputare in faccia al mondo. Un irregolare del pensiero, lingua di fuoco e braccia accoglienti. Senza uno straccio di stazione della metro a suo nome.


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Aspettiamo i vostri commenti sul libro!


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mercoledì 14 settembre 2011

"Céline ci scrive" recensito su Booksblog!






Céline ci scrive, le sue lettere "maledette" tradotte e pubblicate per la prima volta in italiano



Sono passati cinquant’anni dalla morte di Louis Ferdinand Céline, cinquant’anni in cui lo scrittore maledetto per eccellenza è stato trattato in ogni modo. Da ogni parte politica, da destra e da sinistra, Céline è stato, in quanto scrittore, oltraggiato. Nel mondo letterario, nessuno più di lui in questi cinquant’anni ha subito più tentativi di strattonamento verso l’una o l’altra parte politica. La pubblicazione di questo «Céline ci scrive. Le lettere di Louis-Ferdinand Céline alla stampa collaborazionista francese, 1940-1944», a cura di Andrea Lombardi, potremmo dire che contribuisce al dibattito come una bomba a mano contribuisce a una rissa, vale a dire mandando tutti al tappeto e mettendo in evidenza l’inutilità dell’alterco. Le lettere ora pubblicate, infatti, sono a tutti gli effetti “maledette”, sono illeggibili per qualunque benpensante, sono inammissibili, oltraggiano praticamente ognuno dei principi su cui abbiamo costruito il mondo occidentale contemporaneo. Eppure, io credo, sono lettere che fanno bene proprio per questa loro indigeribilità, perché ci mostrano quanto sia inutile e idiota cercare di trasformare un uomo in un vessillo e costringerlo a sventolare da una parte o dall’altra, soprattutto quando si parla di Céline. Céline, l’uomo, era una personalità lontana da questo tipo di logica come il nostro pianeta dalla stella più vicina. Chi si affanna a cercare di farlo schierare, non solo non ha capito nulla di quel formidabile e spiazzante anarchico, ma non ha capito nulla neppure della Letteratura.



Tutto ciò che può essere detto sulla visione politica di Céline, o almeno, tutto ciò che può interessare noi, i suoi lettori dell’inizio del XXI secolo, è ben riassunto in una frase nell’introduzione al libro scritta da Andrea Lombardi:


rendendoci pur conto che pensare di riuscire ad apporre sul pensiero del nostro una comoda etichetta sia fatica di Sisifo, forse un termine che più si avvicina a delineare la sua sensibilità è “antimoderno”, anzi, “anticontemporaneo”


Lombardi, sempre nella sua introduzione, cita anche un brano di Pontiggia, traduttore delle Bagatelles, un brano che illumina la vera forza di questo scrittore, un brano che vale la pena di leggere:


Céline, nei romanzi come nei terribili libelli antisemiti e anticomunisti, urla delle verità che nessuno aveva mai saputo dire con tanta forza: la tempesta della chiacchiera ha ormai rimbambito il mondo, lo ha reso come un pugile suonato, come un idiota pronto a ingoiare tutto. I sistemi democratici, le istituzioni democratiche, sono diventati dei circhi equestri, delle palestre di buffoneria a buon mercato. Ma questo è Céline, direte: no, questo è il mondo nel quale viviamo, che Céline è stato il primo, forse l’unico, ad aver denunciato. Senza ombrelli ideologici, senza vanità, senza protezione, senza speculazione: del resto non c’è niente di più sterile e noioso che leggere tutti quegli scrittori impegnati che denunciano in nome di un partito, di un’idea.







lunedì 5 settembre 2011

"Céline ci scrive" ora disponibile!!!






L'editore ci segnala che il "Céline ci scrive" è ora finalmente disponibile! Valeria e io speriamo che il libro vi piaccia, e ogni vostro commento è benvenuto!

Louis-Ferdinand Céline,

«Céline ci scrive - Le lettere di Louis-Ferdinand Céline alla stampa collaborazionista francese, 1940-1944».

A cura di Andrea Lombardi
Prefazione di Stenio Solinas

Presentiamo qui, per la prima volta in italiano, le discusse lettere e gli scritti di Louis-Ferdinand Céline alla stampa collaborazionista francese e apparse su “Je suis partout”, “Au Pilori”, “Germinal”, “La Gerbe”... I temi toccati da Céline in queste lettere “maledette”, vanno dalla disfatta del 1940 e Vichy, gli ebrei, il razzismo, la guerra, la collaborazione franco-tedesca e gli intellettuali, alla polemica letteraria contro Proust, Cocteau e Peguy. Nel volume sono anche riprodotte le pagine originali delle ormai introvabili riviste e quotidiani dove apparvero gli scritti tradotti, mentre le appendici comprendono la risposta di Céline alle accuse della Procura francese, un ricordo di Céline scritto da Karl Epting, direttore dell’Istituto Tedesco di Parigi, un breve saggio sulla cultura politicizzata della Sinistra in quegli stessi anni e uno sui rapporti tra gli intellettuali francesi e tedeschi, e numerose fotografie.

F.to 15x21, pagg. 240, numerose ill. in b/n, brossura, Euro 25,00



Edizioni Il Settimo Sigillo, info@libreriaeuropa.it, tel. 06.3972.2155




Per ordinarlo online cliccare qui:






Deleuze e Céline...




Bentornati dalle vacanze! Abbiamo ricevuto da Davide, che ringraziamo, questa segnalazione...



Volevo segnalarti una pagina internet che può essere utile per il blog (in realtà è su Kafka e la Letteratura minore, tratta per l'appunto, dal libro di Gilles Deleuze e Felix Guattari Kafka. Per una letteratura minore).
L'argomento è difficile, sono anche parecchie parecchie cartelle per la maggiore off topic rispetto al blog [...] ma, in chiusura, troverai un piccolo discorso su Céline molto interessante, con dei giudizi di merito sul linguaggio e alcuni romanzi céliniani (ed anche una non proprio esplicitata ma chiara stroncatura della Trilogia), in collegamento ovviamente con molti argomenti trattati prima.
In generale, sapere quello che Deleuze pensa di Céline non mi pare cosa da poco, anche se estratto perifericamente da un saggio su un altro autore:



CHE COS'È UNA LETTERATURA MINORE?


Gilles Deleuze e Félix Guattari


[…] Il problema dell’espressione non viene posto da Kafka in un modo astratto e universale, ma in rapporto con le cosiddette letterature minori – per esempio la letteratura ebraica a Varsavia o a Praga. Una letteratura minore non è la letteratura d'una lingua minore ma quella che una minoranza fa in una lingua maggiore. Il primo carattere di tale letteratura è che in essa la lingua subisce un forte coefficiente di deterritorializzazione. Kafka definisce in questi termini l’impasse che impedisce agli Ebrei di Praga l'accesso alla scrittura e fa della loro letteratura qualcosa d'impossibile; impossibilità di non scrivere, impossibilità di scrivere in tedesco, impossibilità di scrivere in un'altra lingua.[1] Impossibilità dinon scrivere perché la coscienza nazionale, incerta o oppressa, passa necessariamente attraverso la letteratura – la battaglia letteraria acquista una giustificazione reale sulla massima scala possibile. La impossibilità di scrivere in una lingua diversa dal tedesco è per gli Ebrei di Praga il sentimento di una distanza irriducibile rispetto alla primaria territorialità ceca.
E l'impossibilità di scrivere in tedesco è la deterritorializzazione della popolazione tedesca stessa, minoranza oppressiva che parla una lingua staccata dalle masse, come un “linguaggio di carta” o artificiale; a maggior ragione gli Ebrei, che fanno parte di questa minoranza ma ne sono anche esclusi, quasi come zingari che abbiano strappato il bambino tedesco dalla culla. Insomma, il tedesco di Praga è deterritorializzato, adattato a strani usi minori (si veda, in un diverso contesto, cosa possono fare i Negri con l’americano).
Il secondo carattere delle letterature minori consiste nel fatto che in esse tutto è politica. Nelle “grandi” letterature, invece, il fatto individuale (familiare, coniugale, ecc.) tende a congiungersi con altri fatti altrettanto individuali, mentre il contesto sociale serve solo da contorno e sfondo; ne deriva che nessuno dei fatti edipici in particolare è indispensabile, o assolutamente necessario, ma tutti “fanno blocco” in uno spazio allargato. La letteratura minore è tutta diversa: l’esiguità del suo spazio fa sì che ogni fatto individuale sia immediatamente innestato sulla politica. Il fatto individuale diviene quindi tanto più necessario, indispensabile, ingrandito al microscopio, quanto più in esso si agita una storia ben diversa. In questo senso, appunto, il triangolo familiare si connette agli altri triangoli, commerciali, economici, burocratici, giuridici, che ne determinano i valori. Quando Kafka indica fra gli scopi di una letteratura minore “l’epurazione del conflitto che oppone padri e figli e la possibilità di discuterne," il suo non è un fantasma edipico ma un programma politico. "Anche se il singolo fatto è pensato e ripensato con calma, non si arriva ai suoi limiti dove esso è collegato con fatti di uguale natura; più facile è raggiungere il limite di fronte alla politica, anzi si tende persino a vedere questo limite prima che ci sia, e, spesso, a trovare dappertutto questo limite che si contrae. […] Ciò che nell'ambito di grandi letterature sisvolge in basso e costituisce una cantina non indispensabile all'edificio, avviene qui in piena luce; ciò che là fa nascere un momentaneo affollamento, provoca qui nientemeno che una decisione di vita o di morte." (J., 302-3)
Nella letteratura minore, infine – ed è questo il terzo carattere – tutto assume un valore collettivo. Infatti, proprio per la carenza, in essa, di talenti, non si danno le condizioni di una enunciazione individuata, che potrebbe essere per esempio quella dell’uno o dell’altro maestro e che potrebbe venir separata dall’enunciazione collettiva. La relativa mancanza di talenti finisce così per avere un effetto benefico e permette di concepire qualcosa di diverso da una letteratura di maestri: ciò che lo scrittore, da solo, dice, costituisce già un’azione comune e ciò che dice o fa è necessariamente politico, anche se gli altri non sono d’accordo. Il campo politico ha contaminato ogni enunciato. Ma soprattutto – ed è ciò che più conta – dal momento che la coscienza collettiva o nazionale è “spesso inattiva nella vita esterna e sempre in via di disgregazione," la letteratura viene ad assumere positivamente su di sé questo ruolo e questa funzione di enunciazione collettiva, e addirittura rivoluzionaria. È la letteratura che produce una solidarietà attiva, malgrado lo scetticismo; e se lo scrittore resta ai margini, o al di fuori, della sua fragile comunità, questa situazione lo aiuta ancor di più a esprimere un'altra comunità potenziale, a forgiare gli strumenti di un’altra coscienza e di un'altra sensibilità. Come il cane delle Indagini, che dalla sua solitudine fa appello a un'altra scienza. La macchina letteraria prende il posto di una macchina rivoluzionaria a venire non certo per ragioni ideologiche ma perché è la sola ad essere determinata a soddisfare le condizioni di un’enunciazione collettiva che, in quell’ambito, non sono presenti da nessun’altra parte: la letteratura è affare del popolo.[2] È proprio in questi termini che il problema si pone per Kafka. L'enunciato non rimanda a un soggetto d'enunciazione che ne sarebbe la causa, e neppure a un soggetto d'enunciato che ne sarebbe l'effetto. Indubbiamente, per un certo periodo, Kafka ha pensato secondo le tradizionali categorie dei due soggetti, autore e eroe, narratore e personaggio, sognatore e sognato.[3] Ma egli rinuncerà presto al principio del narratore, proprio come rifiuterà, malgrado l'ammirazione per Goethe, una letteratura d'autore o di maestri. Giuseppina la cantante-topo rinuncia all'esercizio individuale del suo canto per fondersi nell'enunciazione collettiva dell’innumerevole moltitudine degli eroi di [sua] gente. (R., 597) Passaggio dall’animale individuato alla muta o alla molteplicità collettiva: sette cani musicanti. Sempre nelle Indagini di un cane gli enunciati del solitario ricercatore tendono al concatenamento di un'enunciazione collettiva della specie canina, anche se questa collettività non è più – o non è ancora – data. Non c'è soggetto, ci sono solo concatenamenti collettivi d’enunciazione –e la letteratura esprime tali concatenamenti nelle condizioni in cui non sono dati al di fuori, e in cui esistono soltanto come potenze diaboliche a venire o come forze rivoluzionarie da costruire. Kafka è portato dalla sua solitudine ad aprirsi a tutto ciò che traversa la storia dei giorni nostri. La lettera K non designa più né un narratore né un personaggio ma un concatenamento tanto più macchinistico,[4] un agente che è collettivo nella misura in cui un individuo vi si trova innestato nella sua solitudine – solo in rapporto a un soggetto l’individuale diverrebbe separabile dal collettivo e potrebbe fare per suo conto gli affari propri.
I tre caratteri della letteratura minore sono quindi la deterritorializzazione della lingua, l'innesto dell'individuale sull'immediato-politico, il concatenamento collettivo d'enunciazione. Ciò equivale a dire che l’aggettivo "minore" non qualifica più certe letterature ma le condizioni rivoluzionarie di ogni letteratura all’interno di quell’altra letteratura che prende il nome di grande (o stabilita). Anche chi ha la sventura di nascere nel paese d'una grande letteratura deve scrivere nella propria lingua come un ebreo ceco scrive in tedesco, o come un uzbeko scrive in russo. Scrivere come un cane che fa il suo buco, come un topo che scava la sua tana. E, a tal fine, trovare il proprio punto di sotto-sviluppo, un proprio dialetto, un terzo mondo, un deserto tutto per lui. Si è discusso a lungo sul problema di cosa sia una letteratura marginale – o anche una letteratura popolare, proletaria e via dicendo. I criteri sono ovviamente molto difficili da stabilire se non si passa innanzitutto attraverso un concetto più obiettivo, quello di letteratura minore. È soltanto la possibilità di instaurare dall’interno un esercizio minore d’una lingua anche maggiore che permette di definire popolare, marginale ecc. una letteratura.[5] Solo a queste condizioni la letteratura diviene realmente macchina collettiva d’espressione e riesce a trattare, a coinvolgere i contenuti. Kafka dice precisamente che una letteratura minore riesce molto meglio delle altre a elaborare la materia.[6] Perché? e cos'è questa macchina d'espressione? Sappiamo che essa ha con la lingua un rapporto di deterritorializzazione molteplice: èla situazione degli Ebrei che hanno abbandonato il ceco insieme all'ambiente rurale, ma anche della lingua tedesca intesa come “linguaggio di carta”.
[…] Egli opterà per la lingua tedesca di Praga, così com’è, nella sua povertà stessa. Andare sempre più avanti nella deterritorializzazione... a forza di sobrietà. Poiché il vocabolario è disseccato, farlo vibrare in intensità. Opporre un uso puramente intensivo della lingua ad ogni uso simbolico, o significativo, o semplicemente significante. Arrivare a una espressione perfetta e non formata, un'espressione materiale intensa. […]
Quante persone vivono ancor oggi in una lingua che non è la loro? Oppure non conoscono neppure la loro, e conoscono male la lingua maggiore di cui sono costretti a servirsi? È il problema degli immigrati, e soprattutto dei loro figli. È il problema delle minoranze. Problema d’una letteratura minore e tuttavia anche nostro, di noi tutti: come strappare alla propria lingua una letteratura minore, capace di scavare il linguaggio e di farlo filare lungo una sobria linea rivoluzionaria? Come diventare il nomade, l'immigrato e lo zingaro della propria lingua? Kafka parla di strappare il bambino dalla culla, ballare su una corda tesa.
Ricco o povero che sia, un linguaggio qualsiasi implica sempre una deterritorializzazione della bocca, della lingua e dei denti. La bocca, la lingua e i denti trovano la loro territorialità primitiva negli alimenti. Votandosi all’articolazione dei suoni, la bocca, la lingua e i denti si deterritorializzano. Vi è dunque una certa disgiunzione tra mangiare e parlare – e, ancor di più, malgrado le apparenze, fra mangiare e scrivere: è certo possibile scrivere mangiando, è più facile che parlare mangiando, ma la scrittura trasforma in maggior misura le parole in cose capaci di competere con gli alimenti. Disgiunzione fra contenuto ed espressione. Parlare, e, soprattutto, scrivere, significa digiunare. Kafka dimostra una persistente ossessione dell’alimento, e di quell'alimento per eccellenza che è l'animale o la carne, l'ossessione del macellaio, e dei denti, dei grandi denti sporchi o dorati.[7] […]
Di solito, in effetti, la lingua compensa la sua deterritorializzazione con una riterritorializzazione nel senso. Una volta cessato di essere organo di un senso, essa diviene strumento del Senso. Ed è il senso, come senso proprio, che presiede all’assegnazione di designazione ai suoni (la cosa o lo stato di cose che la parola designa) e, come senso figurato, all'assegnazione di immagini e metafore (le altre cose alle quali la parola si applica sotto certi aspetti o certe condizioni). Di riterritorializzazioni non ce n'è quindi una soltanto, spirituale, nel "senso", ma un'altra, fisica, attraverso questo stesso senso. Parallelamente, il linguaggio esiste solo attraverso la distinzione e la complementarità di un soggetto di enunciazione, rispetto al senso, e di un soggetto d’enunciato, rispetto alla cosa designata, direttamente o metaforicamente. Questo uso ordinario del linguaggio può essere definito estensivoo rappresentativo: funzione riterritorializzante del linguaggio – così il cane cantante della fine delle Indagini costringe l'eroe a abbandonare il suo digiuno, una specie di riedipizzazione, insomma.
Ed ecco, la situazione del tedesco di Praga, come lingua disseccata, mescolata al ceco o allo jiddish, offrirà a Kafka la possibilità di una delle sue invenzioni. Se le cose stanno così ("è così, è così," formula cara a Kafka, protocollo di uno stato di fatto...), si abbandonerà il senso, lo si sottintenderà, per conservarne soltanto uno scheletro, o una sagoma di carta:
1) Mentre il suono articolato era un rumore deterritorializzato, che però si riterritorializzava nel senso, ora è il suono stesso che si accinge a deterritorializzarsi senza contropartita, assolutamente. Il suono o la parola che traversano questa nuova deterritorializzazione non sono linguaggio sensato, benché da esso derivino, e tanto meno una musica o un canto organizzato, benché in parte ne rendano l'effetto. Abbiamo già visto il pigolio di Gregorio che confonde le parole, il fischio di Giuseppina, la tosse della scimmia; ma anche il pianista che non suona, la cantante che non canta e fa nascere il suo canto dal fatto stesso di non cantare, i cani musicanti, la cui musicalità è diffusa in tutto il corpo nella misura in cui non emettono musica. Dappertutto la musica organizzata è traversata da una linea di abolizione, come il linguaggio sensato da una linea di fuga, per liberare una materia vivente espressiva che parla da sé e non ha più alcun bisogno di essere formata.[8] Questo linguaggio strappato al senso, conquistato sul senso, cheopera una neutralizzazioneattiva del senso, trova la propria direzione solo in un accento di parola, in un’inflessione: “Vivo soltanto qua e là in una parolina nella cui vocale, per esempio, perdo un istante la mia testa inutile. La prima e l'ultima lettera sono principio e fine del mio pesciforme sentimento."[9] I bambini sono molto abili in quell'esercizio che consiste nel ripetere una parola di cui s'intuisce solo vagamente il senso, per farla vibrare su se stessa (all'inizio del Castello, i bambini della scuola parlano tanto in fretta che non si capisce quello che dicono). Kafka racconta come, da bambino, ripetesse fra sé un'espressione del padre ("ultimo del mese, ultimo del mese"[10]) per farla filare su una linea di nonsenso. Il nome proprio, che non ha un senso di per se stesso, è particolarmente adatto a questo esercizio: Milena, con l'accento sulla i, ricorda in principio "un greco o un romano smarritosi in Boemia, violentato in ceco, ingannato nell'accento"; poi, con un'approssimazione più fine, evoca "una donna che si porta sulle braccia fuori dal mondo, fuori dal fuoco," e il forte accento sulla i indica allora la caduta sempre possibile o, al contrario, "il balzo di felicità che io stesso faccio con questo peso."[11]
2) Riteniamo che vi sia una certa differenza, relativa e sfumata finché si vuole, fra le due evocazioni del nome Milena; l'una è ancora connessa a una scena estensiva e figurata, del tipo fantasma; l'altra è già molto più intensiva e segna una caduta o un salto come soglia d'intensità compresa nel nome stesso. In effetti, come dice Wagenbach, quando il senso è attivamente neutralizzato, accade che "la parola regna sovrana e fa scaturire direttamente l'immagine." Ma come definire questo procedimento? Del senso resta soltanto quanto basta a dirigere le linee di fuga. Non c'è più designazione di qualcosa sulla base di un senso proprio, né assegnazione di metafore in base a un senso figurato. Ma la cosa come le immagini forma soltanto una sequenza di stati intensivi, una scala o un circuito di intensità pure che si può percorrere in un senso o nell'altro, dall'alto verso il basso o dal basso verso l'alto. L'immagine è questo percorso stesso, essa è divenuta divenire: divenir-cane dell'uomo e divenir-uomo del cane, divenir-scimmia o coleottero dell'uomo, e viceversa. Noi non ci troviamo più di fronte ad una comune lingua ricca, in cui per esempio il termine cane designa direttamente un animale e si applica per metafora ad altre cose di cui si potrebbe dire che sono "come un cane."[12] Diari, 6 dicembre 1921: "Le metafore sono una delle tante cose che mi fanno disperare dei miei scritti." Kafka sopprime deliberatamente ogni metafora, ogni simbolismo, ogni significazione come ogni designazione. La metamorfosi è il contrario della metafora. Non c’è più né senso proprio né senso figurato ma distribuzione di stati nel ventaglio della parola. La cosa e le altre cose non sono ormai che intensità percorse dai suoni o dalle parole deterritorializzate secondo la loro linea di fuga. E non si tratta d’una rassomiglianza fra il comportamento d'un animale e quello d'un uomo, e tanto meno di un gioco di parole. Non c'è più né uomo né animale, perché l'uno deterritorializza l'altro in una congiunzione di flusso, in un continuum di intensità reversibile. Siamo di fronte a un divenire che comprende al contrario il massimo di differenza come differenza di intensità, oltrepassamento di una soglia, innalzamento o caduta, abbassamento o erezione, accento di parola. L'animale non parla "come" un uomo, ma estrae dal linguaggio delle tonalità prive di significazione; le parole stesse non sono “come” degli animali, ma strisciano per loro conto, abbaiano e pullulano, essendo propriamente cani linguistici, insetti o topi.[13] Far vibrare delle sequenze, aprire la parola su intensità inaudite, insomma, un uso intensivo asignificante della lingua. Ovvero, non c’è più soggetto d'enunciazione né di enunciato: non è più ilsoggetto d’enunciato a essere un cane, mentre il soggetto d'enunciazione resterebbe "come" un uomo; non è più il soggetto di enunciazione ad essere "come" uno scarafaggio, mentre il soggetto d'enunciato resterebbe un uomo; ma è un circuito di stati che forma un mutuo divenire all’interno di un concatenamento necessariamente molteplice o collettivo.
In che senso la situazione del tedesco di Praga – vocabolario disseccato, sintassi scorretta – favorisce quest'uso? Si potrebbero chiamare in linea di massima intensivi o tensori gli elementi linguistici, per vari che siano, che esprimono “tensioni interne d'una lingua." In questo senso, appunto, il linguista Vidal Sephiha definisce intensivo "ogni strumento linguistico che permette di tendere verso il limite d'una nozione o di superarlo”, segnando un movimento della lingua verso gli estremi, verso un al di là o un al di qua reversibili.[14] Vidal Sephiha illustra bene la varietà di questi elementi che possono essere parole passe-partout, verbi o preposizioni che possono assumere un senso qualsiasi; verbi pronominali, o propriamente intensivi, come in ebraico; congiunzioni o interiezioni, avverbi: termini che connotano il dolore.[15] E si potrebbero anche citare gli accenti interni alle parole con la loro funzione discordante. Ora, a quanto risulta, una lingua di letteratura minore sviluppa in modo particolare questi tensori o questi intensivi. Wagenbach, nelle bellissime pagine in cui analizza iltedesco di Praga influenzato dal ceco, ricorda fra le caratteristiche salienti: l'uso erroneo di alcune preposizioni; l'abuso del prenominale; il ricorso a verbi passe-partout (ad esempio Geben per la serie “mettere, sedere, posare, togliere," che diviene così intensiva); la moltiplicazione e la successione degli avverbi; l’impiego di connotazioni dolorifere; l'importanza dell’accento come tensione interna alla parola, infine la distribuzione delle consonanti e delle vocali come discordanza interna. Wagenbach insiste poi sul fatto che tutti questi tratti di povertà sono presenti in Kafka, che tuttavia ne fa un uso creativo, mettendoli al servizio d'una sobrietà nuova, di una nuova espressività, di una nuova flessibilità, di una nuova intensità.[16] "Quasi nessuna delle parole che scrivo è adatta alle altre, sento come le consonanti stridono fra di loro con suono di latta e le vocali le accompagnano col canto come negri all'esposizione."[17] Il linguaggio cessa di essere rappresentativo per tendere verso i suoi limiti o i suoi estremi.La connotazione di dolore accompagna questa metamorfosi, come quando le parole divengono pigolio doloroso in Gregorio, o come il grido di Franz, "tutto d'un fiato e su un solo tono." Si pensi all'uso del francese come lingua parlata nei film di Godard. Anche qui accumulazione di avverbi e di congiunzioni stereotipate, che finiscono per costituire tutte le frasi: strana povertà, che fa del francese una lingua minore in francese; procedimento creativo che innesta direttamente la parola sull'immagine; mezzo che sorge in fine di sequenza, in relazione con l'intensivo del limite "basta, basta, ne ho piene le scatole"; l'intensificazione generalizzata, coincidente con una panoramica in cui la macchina da presa gira e spazza il campo senza spostarsi, facendo vibrare le immagini.
Può darsi che lo studio comparato delle lingue sia meno interessante di quello delle funzioni del linguaggio che possono esercitasi per un medesimo gruppo attraverso lingue diverse: bilinguismo, e persino multilinguismo. In effetti questo studio delle funzioni che possono incarnarsi in lingue distinte è il solo a tener conto direttamente dei fattori sociali, dei rapporti di forza, dei diversissimi centri di potere. Tale studio sfugge al mito “informativo” e valuta il sistema gerarchico e imperativo del linguaggio come trasmissione di ordini, esercizio del potere o resistenza a questo esercizio. Basandosi sulle ricerche di Ferguson e di Gumperz, Henri Gobard propone per parte sua un modello tetralinguistico: la lingua vernacolare, materna o territoriale, di comunità o di origine rurale; la lingua veicolare, urbana, statale o anche mondiale, lingua di società, di scambio commerciale, di trasmissione burocratica, ecc., la lingua di prima deterritorializzazione; la lingua referenziale, lingua del senso e della cultura, operatrice di una riterritorializzazione culturale; la lingua mitica all'orizzonte delle culture, lingua di riterritorializzazione spirituale e religiosa. Le categorie spazio-temporali di tali lingue si distinguono pressappoco nel seguente modo: la lingua vernacolare è qui; la veicolare dappertutto; la referenziale là; la mitica, al di là. Ma, soprattutto, la distribuzione delle lingue stesse varia da un gruppo all'altro, e, per uno stesso gruppo, da un epoca all’altra (prima di diventare lingua referenziale, poi mitica, il latino fu per molto tempo in Europa una lingua veicolare; l'inglese è oggi la lingua veicolare mondiale).[18] Ciò che può essere detto in una lingua non può esserlo in un’altra, e l’insieme di ciò che può essere detto e di ciò che non può esserlo varia necessariamente secondo le lingue e i rapporti che fra di esse si stabiliscono.[19] Inoltre, tutti questi fattori possono avere delle frange ambigue, con suddivisioni mobili, che differiscono in questa o quella materia. Una lingua può assolvere una certa funzione in questa materia, un'altra in un'altra materia. Ciascuna funzione di linguaggio si suddivide a sua volta e comporta molteplici centri di potere. Un miscuglio di lingue, non certo un sistema del linguaggio. E quindi comprensibile l’indignazione degli integralisti cui spiace che si dica messa in francese perché il latino viene destituito dalla sua funzione mitica. Ma la Società degli Abilitati è ancora più in ritardo e deplora che il latino sia stato destituito persino dalla sua funzione culturale referenziale. Si rimpiangono con questo quelle forme di potere, ecclesiastico o accademico, che si esercitavano attraverso tale lingua, e che oggi sono state ormai sostituite da altre forme. Ma ci sono degli esempi più seri che traversano i gruppi. Il risveglio dei regionalismi, con riterritorializzazione a mezzo dialetto o linguaggio locale, lingua vernacolare: in cosa fa il gioco di una tecnocrazia mondiale o sopra-statale; in cosa può giovare a movimenti rivoluzionari, poiché anch'essi si portano dietro degli arcaismi cui tentano di iniettare un senso attuale... Da Servan-Schreiber al bardo bretone, al cantore canadese francofono. D'altra parte la frontiera non passa neppure di qui, perché il cantore canadese può anche fare la più reazionaria delle riterritorializzazioni, la più edipica, ohi cara mamma, patria mia, la casetta mia, ohilí ohilà. Proprio come dicevamo, un pasticcio, una storia imbrogliata, una faccenda politica, che i linguisti non conoscono affatto, che non vogliono conoscere – perché loro, in quanto linguisti, sono “apolitici”, studiosi puri. Anche Chomsky non fa che compensare il suo apoliticismo di scienziato con la coraggiosa lotta contro la guerra del Vietnam.
Torniamo alla situazione dell'impero austro-ungarico. Lo sfacelo e il crollo dell'impero accelerano la crisi, accentuano dappertutto i movimenti di deterritorializzazione e suscitano riterritorializzazioni complesse, arcaizzanti, mitiche o simbolistiche. Citeremo, fra i contemporanei di Kafka, i primi che ci vengono in mente: Einstein e la sua deterritorializzazione della rappresentazione dell'universo (Einstein insegna a Praga, e il fisico Phillipp Frank vi tiene una serie di conferenze, cui assiste lo stesso Kafka); i teorici austriaci della dodecafonia, e la loro deterritorializzazione della rappresentazione musicale (il grido di morte di Maria in Woyzeck, o quello di Lulu, oppure il si doppio, ci sembrano percorrere una via musicale assai vicina per certi aspetti a Kafka); il cinema espressionista, e il suo doppio movimento di deterritorializzazione e di riterritorializzazione dell'immagine (Robert Wiene, di origine greca, Fritz Lang, nato a Vienna, Paul Wegener e il suo uso di temi praghesi). Aggiungiamo ovviamente la psicanalisi a Vienna, la linguistica a Praga.[20] Qual è la situazione peculiare degli Ebrei di Praga in rapporto alle "quattro lingue"? La lingua vernacolare è, per questi Ebrei trapiantati dalla campagna, il ceco, che tuttavia tende a essere dimenticato e rimosso; quanto allo jiddish, è quasi sempre disprezzato o temuto, fa paura, come dice Kafka. Il tedesco è la lingua: veicolare delle città, lingua burocratica di Stato, lingua commerciale di scambio (ma già l’inglese comincia a diventare indispensabile a tale funzione). Il tedesco di nuovo, ma questa volta il tedesco di Goethe, ha una funzione culturale e referenziale (seguito, a qualche distanza, dal francese). L'ebraico è la lingua mitica – siamo infatti agli albori del sionismo, che si presenta ancora come sogno attivo. Per ciascuna di queste lingue andranno valutati i coefficienti di territorialità, di deterritorializzazione, di riterritorializzazione. La situazione dello stesso Kafka: uno dei pochi scrittori ebrei di Praga a conoscere e parlare il ceco – e questa lingua avrà una grande importanza nei suoi rapporti con Milena. Il tedesco svolge nel caso di Kafka proprio la doppia funzione di lingua veicolare e culturale con Goethe sempre all'orizzonte) – ma Kafka sa anche il francese, l'italiano, e indubbiamente un po’ d’inglese. L’ebraico, invece, lo imparerà solo più avanti. Più complicato è invece il rapporto con lo jiddish: in esso Kafka vede infatti non tanto una specie di territorialità linguistica per gli Ebrei quanto un movimento di deterritorializzazione nomade che travaglia il tedesco. Ad affascinarlo nello jiddish non è tanto una lingua di comunità religiosa, bensì una lingua di teatro popolare (Kafka divenne mecenate e impresario della troupe ambulante di Jizschak Löwy).[21] Degno di nota è il modo in cui Kafka presenta lo jiddish in una conferenza pronunciata di fronte a un pubblico di borghesi ebrei piuttosto ostili: lo jiddish è una lingua che fa paura più ancora che ribrezzo, "una paura non priva di avversione"; una lingua senza grammatica, che vive di vocaboli rubati, mobilizzati, emigrati, divenuti nomadi interiorizzando "dei rapporti di forza"; una lingua innestata sul medio alto tedesco, che lavora il tedesco talmente dall'interno che non si può tradurla in tedesco senza farla scomparire; si può capire lo jiddish solo "sentendolo," e con il cuore. Insomma, lingua intensiva o uso intensivo del tedesco, lingua o uso minori che devono travolgervi. “Allora sentirete la vera unità dello jiddish, e così forte, che avrete paura, ma non più dello jiddish: di voi stessi [...] Godetene meglio che potete!"[22]
Kafka non si orienta verso una riterritorializzazione attraverso il ceco; né verso un uso iperculturale del tedesco reso ancor più dotto dall'immissione di elementi onirici, simbolici e mitici, anche ebraicizzanti, come nella scuola di Praga; né verso uno jiddish orale e popolare; piuttosto egli prende la strada mostrata dallo jiddish in un modo ben diverso, per piegarla a una scrittura unica e solitaria. Poiché il tedesco di Praga è deterritorializzato a vari livelli, si andrà ancora più avanti, in intensità, ma nel senso di una nuova sobrietà, di una nuova inaudita correzione, di una rettificazione spietata, rialzare la testa. Gentilezza schizo, ebbrezza all'acqua pura.[23] Si farà filare il tedesco su una linea di fuga, ci si riempirà di digiuno, si strapperanno al tedesco di Praga tutti i punti di sotto-sviluppo che si tiene nascosti, lo si farà gridare, d’un grido sobrio e rigoroso. Si trarrà da esso il latrato del cane, la tosse della scimmia e il ronzio del maggiolino. Si farà una sintassi del grido, che si unirà alla sintassi rigida di questo tedesco disseccato. Lo si spingerà sino a una deterritorializzazione che non sarà più compensata dalla cultura o dal mito, una deterritorializzazione assoluta, anche se lenta, coagulata, vischiosa. Trascinare lentamente, progressivamente, la lingua del deserto. Servirsi della sintassi per gridare, dare al grido una sintassi.Di grande, di rivoluzionario non c'è che il minore. Odiare ogni letteratura dei padroni. Attrazione di Kafka per i servi e gli impiegati – stessa cosa, in Proust, per i servi e il loro linguaggio. Ma, altrettanto interessante, la possibilità di fare della propria lingua – posto che sia l’unica, e che sia stata, una lingua maggiore – un uso minore. Essere nella propria lingua come uno straniero – è questa la situazione del Grande Nuotatore di Kafka.[24] Anche unica, una lingua resta un pasticcio, un miscuglio schizofrenico, un costume di Arlecchino attraverso il quale si esercitano delle funzioni di linguaggio molto differenti e dei centri di potere distinti, che suggeriscono ciò che può essere detto e ciò che non può: si userà una funzione contro l'altra, si faranno giocare i coefficienti di territorialità e di deterritorializzazione relativi. Anche se maggiore, una lingua può prestarsi a un uso intensivo che la faccia filare secondo linee di fuga creatrici, un uso che, per lento e cauto che sia, formi una deterritorializzazione, assoluta, questa volta. Quanta invenzione, e non solo invenzione lessicale – il lessico conta poco – ma sobria invenzione sintattica, per scrivere come un cane (“Ma un cane non scrive." – “Appunto, appunto”); ciò che Artaud ha fatto delfrancese, il grido-soffio; ciò che Céline ha fatto del francese, seguendo un'altra linea, l'esclamativo spinto all'estremo. L'evoluzione sintattica di Céline: dal Voyage a Mort à crédit, poi da Mort à crédit sino a Guignol's band I – dopo, Céline non ebbe più niente da dire, a parte le sue disgrazie, non ebbe cioè più voglia di scrivere, aveva solo bisogno di soldi. E vanno sempre a finire così le linee di fuga del linguaggio: il silenzio, l’interrotto, l'interminabile, o peggio. Ma che creazione folle intanto, che macchina di scrittura! Tutti lodavano ancora Célineper il Voyage quando lui era già molto più avanti, in Mort à crédit, poi nel prodigioso Guignol's Band,in cui la lingua aveva ormai solo intensità. Céline parlava della "musichetta." Anche Kafka è solo “musichetta," un'altra, ma sempre una musica di suoni deterritorializzati, un linguaggio che fila via con la testa in avanti, facendo capriole. Ecco dei veri autori minori. Una via d'uscita per il linguaggio, per la musica, per la scrittura. È quello che si chiama Pop – musica Pop, filosofia Pop, scrittura Pop: Wórterflucht. Servirsi del polilinguismo nella propria lingua, fare di essa un uso minore o intensivo, opporre il carattere oppresso di questa lingua al suo carattere oppressivo, trovare i punti di non-cultura e di sottosviluppo, le zone linguistiche di terzo mondo attraverso le quali una lingua sfugge, un animale si inserisce, un concatenamento si innesta. Quanti stili, o generi, o movimenti letterari, anche minimi, sognano una cosa sola: assolvere una funzione maggiore del linguaggio, offrire i propri servizi come lingua di Stato, lingua ufficiale (la psicanalisi di oggi, che si presenta come padrona del significante, della metafora e del gioco di parole). Fare il sogno contrario: saper creare un divenir-minore – c’è una chance per quella filosofia che per secoli formò un genere ufficiale e referenziale? Oggi l'antifilosofia vuol essere linguaggio del potere. Approfittiamone.



[1] Cfr. la lettera a Brod del giugno 1921 (E., 396-400) e il commento di K. Wagenbach, op. cit., p. 84.
[2] Diari, 25 dicembre 1911 (J., p. 298):"La letteratura non riguarda tanto la storia letteraria quanto il popolo.”
[3] Cfr. Preparativi di nozze in campagna (R., 58): "Fino a che dici si anziché io la cosa può andare." E i due soggetti riappaiono più avanti (R., 60): "Non ho neppure bisogno di andare proprio io in campagna, non é necessario. Vi mando il mio corpo vestito," mentre il narratore rimane a letto come un coleottero, un cervo volante o un maggiolino. Probabilmente abbiamo qui una delle origini del divenir-coleottero di Gregorio nella Metamorfosi. Kafka, d'altra parte, rinuncia a raggiungere Felice e preferisce restare a letto. Ma, appunto nella Metamorfosi, l'animale assume il valore di un vero e proprio divenire e non qualifica più in alcun modo il ristagnare d'un soggetto d'enunciazione.
[4] In francese, machinique (N.d.T.).
[5] Cfr. M. Ragon, Histoire de la littérature prolétarienne en France, éd. Albin Michel, a proposito della difficoltà dei criteri e della necessità di passare attraverso il concetto di "letteratura di seconda zona."
[6] Diari, 25 dicembre 1911 (J., 298): “La memoria di una nazione piccola non è minore di quella di una grande e perciò elabora più a fondo la materia esistente."
[7] Il tema dei denti ritorna costantemente in Kafka. Il nonno macellaio; la scuola al Fleischmarkt; le mascelle di Felice; il rifiuto di mangiar carne, salvo quando dorme con Felice, a Marienbad. Si veda l'articolo di Michel Cournot sul "Nouvel Observateur" del 17 aprile 1974: "Tu che ha dei denti così grandi." È uno dei più bei testi che mai siano stati scritti su Kafka. Un'opposizione di segno analogo, fra mangiare e parlare, è in Lewis Carroll, e anche qui si ha uno sbocco finale nel non senso.
[8] Il processo: "Infine si accorse che parlavano con lui, ma non capiva, sentiva soltanto il rumore che empiva il locale e sembrava attraversato da uno squillo alto e sempre uguale come quello di una sirena." (384)
[9] Diari, 20 agosto 1911 (J., 169-70).
[10] Diari, 24 dicembre 1911 (J. 294): "Senza pretendere anche un significato, quell'espressione l'ultimo rimase per me un penoso mistero." Tanto più che si ripeteva tutti i mesi – lo stesso Kafka suggerisce che tale espressione rimaneva priva di senso per pigrizia e "leggera curiosità." Spiegazione negativa che fa ricorso a una mancanza o impotenza puntualmente ripresa da Wagenbach. Eppure è normale per Kafka presentare, o nascondere, così gli oggetti della propria passione.
[11] Lettere a Milena (E., 686). Attrazione di Kafka per i nomi propri, a cominciare da quelli che egli stesso inventa; cfr. J., 376-7, a proposito dei nomi propri della Condanna.
[12] Le interpretazioni dei commentatori di Kafka sono a questo proposito tanto più cattive quanto più si fondano su metafore. Marthe Robert, per esempio, ricorda che gli Ebrei sono come cani e, più avanti, afferma "tutti trattano l'artista come un morto di fame e Kafka ne fa un campione di digiuno; o come un parassita, ed egli ne fa un enorme ammasso di vermi" (Oeuvres complètes, cit., t.V., p. 311). Ci sembra che sia questa una concezione troppo semplicistica della macchina letteraria – Robbe-Grillet ha peraltro insistito sulla distruzione di ogni metafora operata da Kafka.
[13] Si veda per esempio la lettera a O. Pollak del 20 dicembre 1902 (E., 10-2).
[14] Cfr. H. Vidal Sephiha, Introduction à l'étude de l'intensif, in "Langages." La parola "tensore" è tratta dal lessico di J.-F. Lyotar, che se ne serve per indicare il rapporto dell'intensità e della libido.
[15] Cfr. H. Vidal Sephiha, op. cit.: "Possiamo pensare che ogni formula che accompagna una nozione negativa di dolore, di male, di paura, di violenza possa sbarazzarsene per mantenete solo il suo valore limite, o intensivo": ne sarebbe un esempio il sehr tedesco, che deriva dal medio alto tedesco sêr, "doloroso."
[16] " Cfr. K. Wagenbach, op. cit., pp. 77-88.
[17] Diari, 15 dicembre 1910 (J., 140-1).
[18] H. Gobard, De la véhicularité de la langue anglaise,"Langues modernes," gennaio 1972(e Analyse tétraglossique, di prossima pubblicazione).
[19] Michel Foucault insiste sull'importanza della distribuzione fra ciò che può essere detto in una lingua in un momento dato e ciò che non può essere detto – anche se può essere fatto. Georges Dévereux (citato da H. Gobard) analizza il caso dei giovani Mohaves che parlano volentieri della sessualità nella loro lingua vernacolare ma ne sono incapaci nella lingua che è per loro veicolare, cioè in inglese; e ciò non accade soltanto perché il maestro inglese esercita una funzione repressiva, c’è qui un problema di lingue. Cfr. Essais d’ethnopsychiatrie générale, Gallimard, pp.125-6.)
[20] Sul circolo di Praga, e sull'influenza da esso esercitata in linguistica, si vedano i nn. 3 e 10 di "Change." (È vero che il circolo di Praga fu fondato soltanto nel 1926, ma Jakobson venne a Praga nel 1920 e vi trovò una scuola ceca già costituita e animata da Mathesius; tale scuola era legata anche ad Anton Marty, che aveva insegnato nelle università tedesche. Kafka seguì negli anni fra il 1902 e il 1905 i corsi di Marty, discepolo di Brentano, e partecipò alle riunioni dei brentanisti.)
[21] Sui rapporti di Kafka con Löwy e il teatro jiddish cfr. M. Brod, op. cit., pp. 129-31 e K. Wagenbach, op. cit., pp. 181-3. In questo teatro-pantomima dovevano esserci molte teste basse e teste sollevate.
[22] Discorso sulla lingua jiddish, J., 100-5.
[23] Il direttore d'una rivista afferma che la prosa di Kafka ha "una pulizia fanciullesca che bada a se stessa." Cfr. K. Wagenbach op.cit., p. 81.
[24] Il campione di nuoto è senz'altro uno dei testi più "beckettiani" di Kafka: "Per prima cosa voglio constatare che qui non mi trovo nella mia patria e che, nonostante i miei sforzi, non capisco una sola parola di quello che qui si dice." (J., 911).