giovedì 28 ottobre 2010

Céline e il dramma biologico della storia



Céline e il dramma biologico della storia
di Luca Leonello Rimbotti

26/10/2010
Fonte: Italicum [scheda fonte]

Infernale manipolatore della parola oppure sacerdote ideologico della décadence? Inventore nichilista di quadri solo letterari, oppure geniale interprete politico di una civiltà al tramonto? Insomma: il fin troppo noto anarchisme di Céline è una posa individualista, oppure un vero e proprio manifesto sociale e antropologico? Possiamo ancora oggi leggerlo in tanti modi, Céline. Ma, se vogliamo andare al fondo della sua anima, tra gli squarci e gli urli, le maledizioni e le ingiurie è possibile trovare netta e precisa un’interpretazione della storia europea. Céline è un analista del tracollo dell’Europa, rappresenta un sensore sensibile agli smottamenti e alle derive, denuncia e preavverte, minaccia e sibila oltraggi alla maniera di un apocalittico profeta antico: magari l’“Ezechiele parigino” di cui parlò Pol Vandromme. C’è in Céline la sensiblerie di un osservatore straziato, che ha sottomano la disintegrazione della civiltà europea e ne grida i misfatti, attraverso le sue storie disperate, ma anche attraverso pagine e pagine di lamentazioni millenaristiche. Céline sa di trovarsi di fronte a uno sbocco, nel centro di uno snodo di epoche, dal cui scioglimento dipenderà l’avvenire del suo mondo. E il suo mondo è l’Europa tradizionale. L’Europa nordica franco-germanica. L’Europa dei popoli sani che fanno la civiltà e la storia. L’Europa delle aristocrazie di stirpe. Céline – è stato osservato – fu allievo del de Gobineau nel soffrire la decadenza come un’ingiuria ineluttabile, forse anche necessaria. Come una fine obbligata, soltanto dalla quale poi ripartire per un nuovo inizio. Già molti anni fa, nel 1974, lo studioso Paolo Carile rilevò la filiazione di Céline dalla inquadratura gaubinista e dall’antropologia di Ėlie Faure, e la rilevò dalla sua lettura degli eventi moderni come dramma biologico della storia, al culmine del quale si attua il precipitare dell’ordine antico in una sequela di accelerati sfaldamenti.Faure era un critico d’arte socialista che spiegava le aggregazioni estetiche come esito di combinazioni positive di sangue e di influssi ambientali, e in questo modo si confrontò con l’ideologia di Gobineau, di cui però rovesciava gli assunti: gli incroci come esiti positivi, come moltiplicatori delle possibilità creative. Nondimeno, egli attribuiva alla forza dinamica ìnsita nei popoli e negli individui il valore di un condizionamento, attraverso il dispiegarsi di dispositions ethnobiologiques determinanti nel formare l’anima collettiva. Céline, che fu in rapporti col Faure, si abbeverò a questa dimensione di un’energia occulta che sanziona le predisposizioni, e Carile appunto ne scorse la manifestazione nel concetto céliniano di âme, l’anima “ancorata ad un’interpretazione strettamente biologica che non accetta gli slanci mistici fauriani”, quale compare, ad esempio, in Mea culpa del 1936. “Céline si credeva depositario di una profezia la cui rivelazione era fondamentale per la salvezza dell’umanità”, ha scritto molti anni fa Vandromme. Difatti, sembra sempre di sentire rintoccare la campana apocalittica di un ultimo evento, di una imminente catastrofe che attende l’Europa nel fondo del suo declino. E questo, tanto nelle sue storie di trascinamenti nei degradi scuri della psiche metropolitana, quanto nelle filippiche nevrotiche dei suoi luciferini e brutali pamphlet. Con, al centro, ogni volta, l’allucinazione dello sfacelo fisico e mentale, dell’abbrutimento, la febbricitante sofferenza per l’oscenità della lenta, sicura consunzione che attanaglia l’individuo spoglio e isolato, così come le plebi, i popoli, l’Europa intera. Si è individuato nell’inizio del 1942 – con la brutta piega presa dalla guerra “tedesca” - il momento del distacco di Céline da ogni furore di lotta positiva: ciò che fino a quella data egli ancora riteneva possibile attraverso la violenta liberazione di tutte le energie ancora inespresse dalla Francia e dall’Europa germanizzate, cioè un arresto della nostra civiltà sull’orlo dell’abisso e un raddrizzamento dei fini e dei modi, da allora in poi divenne disperata ricerca di un precipizio in cui gettare l’uomo e la sua incapacità di salvarsi. Il fatalismo céliniano non è tuttavia rassegnato: è esibizione di volontà di rovina. In questo, egli rappresenta al meglio la tragicità di un modo d’essere incapace di interpretare la realtà, altrimenti che nei modi manichei del trionfo o della catastrofe. E allora, se il trionfo non poteva più aversi, si sarebbe dovuto volere la catastrofe. E tanto più grandiosa e definitiva, tanto meglio. “Cronista tragico”, si definì Céline in un’intervista del 1960. Cronista in grado di intercettare e di rappresentare il tragico dell’epoca, come a pochi era stato concesso. Poiché, così aggiunse, “la maggior parte degli autori cercano la tragedia senza trovarla”. Lui invece la trovò, si agitò al centro del ciclone e sospinse il dramma fino ai suoi limiti radicali. Lo psicodramma di Céline – che non fu certo il solo nella sua epoca a vivere questa dimensione dell’assurdo totale – rappresenta il destino europeo sotto la specie di una tragedia personale elevata a simbolo di un mondo e di una generazione. L’ossessione per la degenerazione psico-fisica dell’uomo occidentale diventa in Céline una sorta di manifesto bioetico, depotenziato forse per l’ambiguo estremismo del linguaggio popolaresco, che cerca nell’argot dei bassifondi la parola infame per descrivere le brutture della vita; ma potenziato, d’altra parte, proprio dalla consapevolezza, vissuta forse come bagaglio d’esperienze del “medico dei poveri”, dell’illimitata miseria delle masse umane urbanizzate e rese indegne, ignobili, dalle logiche della società capitalista moderna. La purezza, in questo quadro, è un vero richiamo al mito di un’unità di specie che è andata perduta per la violenza e le ingiustizie del mondo. Una purezza introvabile ormai, il paradiso perduto dell’uomo nel suo eterno inganno moralista. Già nel Viaggio al termine della notte, Céline tratteggia la sua rabbia per l’impossibilità fisica di igienizzare l’umanità povera, per redimerla, per dunque ripulire dal male la razza e restituirla a una qualunque dignità. Le parole con cui rappresenta la mescolanza oscena dei miserabili della banlieue e dei quartieri poveri – da lui ben conosciuta di persona – sono l’attestato del suo dolore per un disfacimento ormai irrefrenabile: “la razza…è un ammasso di malandati, pidocchiosi, miserabili che sono capitati qui per causa di fame, peste, tumori e freddo…da tutte le parti del mondo…”. Ed ecco qua, pertanto, una prima applicazione di quella consapevolezza per il “dramma biologico della storia” di cui dicevamo, e che Céline vedeva chiaramente all’opera nel cuore parigino della France eternelle. Un cuore marcio, scolpito con tutte le putredini della mescolanza. Questo orrifico affastellamento di destini assemblati dal caso è la risultante del tradimento che l’uomo moderno ha compiuto nei confronti della nobiltà dell’appartenenza di stirpe. Céline il bretone, orgoglioso della sua nordicità, della limpidezza dei suoi trascorsi ereditari di terra e di sangue, vive la lacerazione dolorosa di una realtà, quella della cosmopoli parigina, borghese e progressista, liberale e capitalista, che affoga ogni nobile istinto nella primitiva lotta per il possesso materiale, per il lusso. Sopra sta la borghesia che si rimpinza le budella e, dice Céline, si dimentica sempre di passare alla cassa per pagare. Sotto sta la massa dei disperati disonorati, condannati alla perversione di pagare il benessere altrui con la propria allucinante miseria. Non più un popolo, ma feccia senza nome. Non più nemmeno massa, ma semplice turba depravata, scavata dalla malattia, finita dal degrado. Questo è il “socialismo nazionalista” di Céline: una rivolta del sentimento estetico, prima ancora che sociale. Una rivolta per la sanità del corpo e della mente liberati, un gridare carico d’odio in nome della vendetta per le masse deturpate dall’alcool, dal lavoro logorante e animalesco, dall’assenza di ogni segno di nobiltà. Poiché – lo scrisse proprio Vandromme – ciò che vuole questo anarchista (più che anarchico), irrazionalmente devoto alle sue radici celtiche di purezza, è per l’appunto la restaurazione di un mito aristocratico di nobiltà. “Céline crede nella sola cosa necessaria, nel ritorno a una vita nobile”, ha commentato infatti Vandromme. Una nobiltà che appartiene alla concezione tradizionale e antimodernista della vita, di cui Céline fu uno dei massimi rappresentanti novecenteschi. “Vedo l’uomo tanto più inquieto quanto più ha perduto il gusto delle favole, del mito, inquieto fino alla disperazione…” scrisse Céline in Les beaux draps. E aggiunse che l’uomo moderno è come preda di una comune pazzia acquisitiva, un tormento superficiale per i beni materiali che gli fa dimenticare ogni dimensione legata all’irrazionale, al bello, al superiore, al gratuito. Ogni dimensione legata insomma alla natura, rappresentando la società progressista essenzialmente l’anti-natura. E questa anti-natura si esprime sinistramente nel dilagare di tutto ciò che è basso e informe, dando vita a una specie di Sodoma universale, in cui l’impuro imbratta ogni retaggio, corrompe ogni antica bellezza. “Il fatalismo biologico lombrosiano che implica il naufragio di ogni capacità autodecisionale non è lontano da certe pessimistiche considerazioni antropologiche di Céline”. Questa osservazione di Carile ci mostra quanto centrale fosse nel dottor Destouches l’apprensione per il destino del corpo dell’uomo europeo, aggredito da tutte le degenerazioni della massificazione e dell’edonismo borghese. Davanti allo spettacolo di corruzione dei corpi e delle menti, Céline reagisce con l’insulto e con l’odio forsennato, oppure con il gesto picaresco dello sberleffo, l’ironia, la rigolade. Ultimo rifugio – come nel “lazzarone” napoletano – di un’umanità di vinti condannata al disonore e all’anonimato sociale.Della sua epoca fortemente ideologizzata e rivoluzionaria, densa di contraddizioni sociali e di aperture politiche chiliastiche, Céline apprese l’inclinazione radicale verso l’apocalisse. Interpretò il fascismo come un’arma di raddrizzamento del piano inclinato e in favore di un sorgere dell’élite nuova, della giovane aristocrazia che imponesse nuovi codici di etica comunitaria e di onore sociale. Il tutto inquadrando nel contesto di un amore viscerale per la carne, per il corpo fisico dell’uomo, elevato a simbolo sommo dell’ideale di purezza. Le pagine che, ad esempio, Céline dedicò alla bellezza estetica della danza, di cui era ammirata interprete la moglie, gli accenti lirici che spese a proposito del bel gesto armonico, dell’aggraziato flettersi del corpo, della grandezza dell’arte perché in-utile, non monetizzabile, gratuita, sono l’attestato di questo amore celiniano per l’incanto della purezza, priva di prezzo ma grandemente preziosa. Un sovramondo che aveva il suo tenebroso contraltare nel sottomondo dei deformi, degli sfiancati, dei ruderi umani che erano gli avanzi antropologici del capitalismo borghese. Leggiamo un attimo quanto sempre Carile scrisse circa l’antropologia etica di Céline: “Céline riprende le tesi tipiche della sua generazione al fine di giustificare il proprio elitismo, frutto di un movimento psicologico di difesa dalla pessimistica sensazione della decadenza della civiltà europea. In tal modo lo scrittore, ergendosi contro il mondo moderno, crede di far barriera contro la tecnologia e il consumismo dilaganti che caratterizzano la nostra epoca ‘decadente’. L’elitismo razzista – continuava Carile – lo preserverebbe da quanto ai suoi occhi è simboleggiato negativamente dalla routine democratico-borghese. La sua ribellione lo porta ad esaltare l’irrazionalismo, la gratuità della danza e nel contempo a sublimare il proprio orgoglio aristocratico di ‘autentico celte’; dato che si considerava uno degli ultimi esempi di una razza etnicamente intatta, al di qua della torre di Babele dei popoli e delle culture imbastardite del suo tempo”. In questa analisi c’è tutto quanto il significato epocale della figura e della scrittura di Céline, questo Spengler narratore dei bassifondi del tardo impero europeo, che invoca con fanatismo disperato un’ultima resurrezione del popolo. Céline sapeva di essere uno dei pochi capaci di andare davvero fino in fondo. Le sue scelte oltranziste – dall’antisemitismo al filogermanesimo, da Sigmaringen alla cocciuta ostinazione postbellica di non rinnegare nulla – gli attirarono un carico d’odio che soltanto oggi viene meno, per via di certi biografi che però fanno anche di peggio, dato che vogliono fare di Céline non il felino ungulato che era, ma un cappone da cortile, solo un po’ bizzarro. Lo sapeva che imboccando la strada di una difesa antropologica ed etnica dell’uomo europeo si sarebbe guadagnato una fama luciferina. Lo sapeva almeno dai tempi di Bagatelles quando, rivolgendosi a se stesso, scrisse: “Ferdinand,…t’auras le monde entier contre toi”.
Avere tutto il mondo contro di sé… È il destino dei veri profeti.

giovedì 14 ottobre 2010

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... benvenuti nel nostro piccolo bazar céliniano, rivolto ai lettori del blog che intendono riempire vuoti nella propria bibliografia céliniana o mettere in vendita opere di Céline. Potete poi postare direttamente nei commenti segnalazioni librarie, aste on line, etc...


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venerdì 8 ottobre 2010

Eliane Bonabel e Céline, di Gilberto Tura


Eliane Bonabel ritratta da Céline...


ELIANE BONABEL

Illustrations pour Voyage au bout de la nuit

di Gilberto Tura

Nell’ottobre del 1999 mi recai per la prima volta in una piccola libreria antiquaria di Montparnasse, al n. 6 di rue Brea. L’interesse mi era nato dopo che Marc Laudelout aveva citato su Le Bulletin Célinien quella che definiva la prima libreria quasi integralmente consacrata alla bibliografia, e non solo, di Louis-Ferdinand Céline. Venni ricevuto da un signore di mezza età che inizialmente non fece nulla per dissimulare una certa diffidenza e freddezza nei miei confronti, sebbene mi fossi presentato e rivolto a lui con sommessa gentilezza, memore di precedenti esperienze legate sempre a situazioni céliniane. Col passare dei minuti, appurato che di fronte a sé aveva un autentico appassionato e cultore, Emile Brami divenne sempre più cordiale e disponibile e intavolammo una lunga e appassionante discussione sul nostro e mi riferì, tra le altre, notizie di attualità sulla vedova Lucette e sui familiari di Céline, ramo Colette. Mi confessò, poi, che accoglieva in quel modo tutti gli sconosciuti che entravano per la prima volta nelle sua libreria come difesa verso non rari “nemici” di Céline o semplicemente verso quegli estremisti di destra che erano interessati solo al feticcio antisemita delle Bagattelle e che erano del tutto disinteressati e ignari dell’opera e della grandezza del loro autore che non esitava ad invitare a guadagnare immediatamente l’uscita.
Per un céliniano entrare in quei pochi metri quadrati dava un piacere inebriante: vi si poteva trovare l’edizione originale numerata del 1924 de La vie et l’oeuvre de Philippe-Ignace Semmelweis contenente un biglietto autografo indirizzato a Georges Destouches zio di Céline oppure la corrispondenza completa tra Céline e la libraia danese Denise Thomassen oppure singole lettere oppure ancora fotografie originali inedite o quasi, dischi a 33 e 45 giri contenenti interviste a Céline o brani del Voyage letti da Arletty e Pierre Brasseur, il numero 52 del 3 novembre 1915 de L’Illustré National in cui a pag. 16 veniva riprodotto il disegno a colori, a tutta pagina, del corazziere Destouches sopra un cavallo lanciato al galoppo che trasporta un messaggio sotto la minaccia del fuoco nemico. Ho testè usato l’imperfetto perché da circa un anno Brami ha deciso di chiudere la libreria e dedicarsi all’attività di scrittore affiancandovi anche quella editoriale. Ha al suo attivo alcuni saggi e una biografia di Céline pubblicata nel 2003 oltre ad alcuni romanzi. Da menzionare anche la pubblicazione, sempre curata da Brami, dell’imperdibile doppio DVD e libretto Céline vivant.
Al termine di quella prima visita in rue Brea pagai i volumi che avevo scelto e molto gentilmente Brami mi omaggiò di una copia di Illustrations pour Voyage au bout de la nuit di Éliane Bonabel da lui curato e pubblicato (di questo volume esiste anche una edizione pregiata e numerata). Venivano così pubblicati per la prima volta i disegni che la dodicenne Éliane realizzò su sollecitazione di Céline nel 1932, alcuni dei quali vengono qui di seguito riprodotti [in un prossimo post, NdAndrea]. Come si legge nel testo della Bonabel che accompagna i 21 disegni, nel 1958 verrà incaricata da Céline di illustrare i Ballets che verranno pubblicati l’anno successivo e di cui Andrea è venuto recentemente in possesso. Parlando della Bonabel Brami mi disse che l’illustratrice era stata un personaggio chiave nella vita di Cèline in quanto era stata la persona che aveva avuto la più lunga frequentazione con lo scrittore durata più di trent’anni ed aveva rappresentato il primo contatto fisico con la Francia e il primo bagliore di speranza durante il drammatico periodo danese.
La conversazione che andiamo a pubblicare è stata raccolta e redatta da Emil Brami nell’aprile del 1998. Nel maggio del 2000 Eliane Bonabel verrà colpita da una emorragia cerebrale che le paralizzerà una metà del corpo e la condurrà alla morte nel dicembre dello stesso anno.
A chi volesse approfondire la conoscenza di Eliane Bonabel consiglio Souvenirs de Clichy, Du Lérot Editeur 2002 che contiene una raccolta di documenti riferiti ai rapporti intrattenuti tra Céline e la famiglia Bonabel.



... e Céline ritratto da Eliane Bonabel.













CONVERSAZIONE CON ELIANE BONABEL

Conservo un ricordo molto vivo del mio primo incontro con il Dr. Destouches. Era il 1929, abitavo allora alla Porte de Clichy, un quartiere molto popolare, con mia nonna e mio zio e padre adottivo Charles Bonabel. Il nostro ambiente era modesto ma non povero, mia nonna era stata maestra durante la guerra del ’14 quando molte donne avevano dovuto rimpiazzare coloro che erano partiti in guerra, Bonabel lavorava nell’editoria pubblicitaria. Mia madre morì di tisi galoppante, cioè di tubercolosi polmonare, in breve tempo quando avevo tre anni e mezzo, lasciandomi in qualche modo a suo fratello. C’era pertanto da noi un vero terrore di questa malattia; appena tossivo venivo fatta visitare dal medico. Poiché le visite erano frequenti e noi non eravamo molto ricchi, andavamo al dispensario che era un luogo tremendamente triste. I muri erano decorati con dei manifesti terrificanti, una iconografia morbosa rappresentante il cancro, la sifilide, che impressionava molto la bambina che ero. C’era un dottore baffuto non più giovane che mi terrorizzava. Non era di certo un cattivo uomo, ma mi parlava bruscamente: «Monta sulla bilancia. Hai perso un altro chilo. Sei cresciuta di 3 cm.». Mi faceva molta paura. Il cambiamento è stato radicale quando è arrivato Destouches. Contrariamente alle descrizioni che ha potuto dare di se stesso, era un bell’uomo, alto, giovane, aitante, con dei magnifici occhi grigio-blu, una presenza e un fascino fisico evidenti. Non credo che si preoccupasse troppo dell’eleganza, ma doveva rifornirsi presso un buon negozio perchè indossava degli indumenti di buon taglio, dei cappotti pesanti, di tessuto di qualità, delle giacche di tweed, quando ancora non erano di moda, o quantomeno che io non conoscevo ancora. Non aveva modi arroganti come a volta altri medici. Quando arrivava salutava tutti, era quasi sempre allegro, gioviale, la sua gentilezza e la sua disponibilità verso i bambini sembravano inesauribili. Parlava con voce forte, con eloquio rapido, con un tono non da burlone ma ricco di humour, sempre ironico, con una piccola luce negli occhi e delle grandi risate sonore. Quando entrava nella sala d’attesa le donne voltavano la testa, anche una bambina della mia età poteva rendersene conto.
Solitamente andavo al dispensario con mia nonna. Ma, una o due volte, venni accompagnata dal mio padre adottivo. Fu durante uno di questi incontri che simpatizzò con Destouches. Avevano entrambi fatto la guerra del ’14 nella cavalleria, in condizioni meno tragiche per Charles Bonabel che Céline, ma con gli stessi orrendi ricordi che hanno da subito condiviso. Hanno ben presto trovato altri punti in comune, la musica, la letteratura e soprattutto la danza; Bonabel amava molto i balletti russi. Vi sono andati qualche volta insieme, fu durante uno di questi spettacoli, poco prima della pubblicazione del Voyage au bout de la nuit che mio padre adottivo incontrò Élisabeth Craig, che non ho mai visto. Siccome Destouches gliene aveva parlato con gli occhi illuminati, descrivendogli una donna di grande bellezza, rimase molto deluso, trovava che fosse equina, piuttosto brutta e che parlasse male il francese. Abbiamo cominciato a frequentare regolarmente il dottor Destouches. Veniva da noi e io andavo in rue Lepic quando riceveva per i suoi diritti di visita sua figlia Colette che aveva la mia età. Riteneva che fossi più matura di lei che viveva in un ambiente molto protettivo, ma che ci saremmo intese, ciò che avvenne. Ero molto selvatica, Colette per niente, ma seppe rompere il ghiaccio. Non si vedevano dei libri in questo grande appartamento, non so dove fossero nascosti, ma non era la cosa più sorprendente. Fui colpita soprattutto da una alcova di cui un muro intero era stato ricoperto d’iscrizioni. Partivano dal capezzale per arrivare fino al punto più alto ove era possibile scrivere montando sul letto. Non si trattava di grafiti osceni, ma solo di firme di donne e di date: « Lulu, il 3 maggio », delle cose del genere. Colette che saltava sul letto mi disse: «Hai visto tutto ciò, mio padre è andato a letto con tutte quelle donne». Sapevo quello che ciò significava, trovai che ciò fosse notevole. Ma fui molto più scioccata dal fatto che una persona adulta potesse scrivere sui muri. Colette veniva da suo padre accompagnata dalla signora Destouches madre che non rassomigliava per nulla al ritratto che lo scrittore Louis-Ferdinand Céline ne ha fatto in Mort à crédit. Non aveva nulla a che vedere con la zoppa a volte spenta ed esaltata che ha descritto suo figlio. Nella realtà era una gran donna, imponente, vestita sempre elegantemente. Portava spesso attorno al collo un nastro di gros-grain e lunghi abiti neri che le cadevano sulle caviglie. Parlava in maniera lenta e ponderata, dando l’impressione d’una donna educata, d’un buon livello sociale, che sembrava soprattutto molto preoccupata di dare di se l’immagine di una borghese. Ho anche visto, una sola volta, la madre di Colette, Édith Follet, che trovai molto elegante. Lei e Céline sembravano essere rimasti in ottimi rapporti nonostante il divorzio.
Durante una di queste visite, Destouches mi domandò «Di cosa ti occupi quando non fai i compiti?», gli risposi: « Disegno». Insistitette per vedere qualche schizzo e allora mi ha detto: « Mi piacerebbe che tu mi facessi il ritratto». Ho rappresentato molto banalmente un uomo col camice bianco con uno stetoscopio e ha detto: «Ma è splendido, te lo compero.» Mi ha pagato con un assegno, cosa che mi è parsa curiosa, una somma probabilmente molto importante per una bambina di dieci anni. Ne ero molto fiera. Fu prima della pubblicazione del Voyage. Sapevamo che stava scrivendo un libro, ne parlava con Bonabel per lamentarsi del tempo che ciò gli portava via, della fatica e aggiunse: «Non so assolutamente quello che ciò produrrà». Veniva meno spesso a casa nostra, poi più per niente. L’abbiamo rivisto solo dopo l’uscita del libro. Céline ne inviò una copia a Bonabel che trovò il libro prodigioso, comprendendo immediatamente che una nuova maniera di scrivere, che non assomigliava a niente di ciò che era stato fatto prima, stava per nascere. Mio padre adottivo era appassionato di letteratura, il fatto che il dottor Destouches fosse diventato uno scrittore ha rafforzato la loro amicizia, tanto più che il successo immediato non ha cambiato i loro rapporti: Céline non diventò per nulla più distaccato, più pretenzioso, più pieno di sé, dopo la pubblicazione rispetto a prima. Restò esattamente lo stesso uomo.
Un giorno, in cui non ero presente, disse a Bonabel: « La piccola dovrebbe illustrare il libro, mi farebbe piacere.» Non avevo letto il libro. All’epoca si faceva molta attenzione alle letture dei bambini, soprattutto delle bambine e il Voyage era considerato un romanzo scandaloso. Ma mio padre adottivo aveva dei principi educativi molto liberali. Le mie prime letture sono state quelle di tutti i bambini, poi sono passata molto presto, senza che egli si opponesse, a Victor Hugo, a Colette che ho divorato a partire da 10 anni. Le bambine della mia età leggevano piuttosto Marcel Tinayre, Paul Géraly o Georges Ohnet, l’autore di La faute des roses, una bluette (piccola opera senza pretesa, ndt) che avevo trovato idiota. Avevo accesso a tutta la biblioteca. Non mi sarebbe stato messo tra le mani Mirbeau o Sade, ma mi ricordo di aver letto Le Roi Pausole de Pierre Louys, un libro un po’ libertino, o ancora qualche romanzo della principessa Bibesco, uno scrittore sentimentale, ma con uno sfondo erotico che all’epoca scandalizzava. Bonabel lasciava fare, pensava che i brutti libri sono quelli in cui la dattilografa incontra un signore molto ricco e finisce per sposarlo, perché si arriva a credere che nella vita le cose vanno così. Mi danno quindi il Voyage; il volume mi appare consistente, 623 pagine, la cifra mi resta impressa, mi dico che ci vorrà del tempo. Ma non mi scoraggiai, al contrario ero rapita perché la scrittura mi parve semplice, le persone parlavano come nella vita, si diceva « Y flotte terrible» invece di «Il pleu terriblement». Quanto al contenuto, una bambina di 12 anni che viveva a Clichy e che andava in vacanza in campagna non ha grandi cose da apprendere. Le sole domande che ho posto riguardavano la guerra. Cominciai a disegnare, non sapevo come erano vestiti i corazzieri, Bonabel mi mostra le uniformi in un vecchio numero dell’Illustration: è il solo documento che ho utilizzato. Quanto al resto, mi sono ispirata da ciò che vedevo nella strada. Gli uomini avevano tutti dei cappelli morbidi e delle giacche a doppio petto, il dispensario è preso dal vivo. Per l’Africa, la visita dell’Esposizione Coloniale alla Porte de Vincennes mi aveva molto colpita, avevo visto dei villaggi di capanne, degli animali, dei «negri» - nessuno, allora, disegnava i neri in altro modo -, e ne uscii come tutti i bambini con un casco coloniale in testa che Bonabel mi aveva acquistato. Quando una frase mi colpiva, provavo di trascriverla graficamente con la maggior fedeltà possibile. Lavorai senza fare schizzi, ho forse sbagliato uno o due disegni che ho ripreso. Nella mia mente bisognava dare l’illusione di qualche cosa di stampato, ho quindi ripassato la matita nera e ho fatto qualche aggiunta con l’inchiostro di china affinchè tutto fosse perfetto. Mostrammo le illustrazioni a Céline un giorno in cui andai a trovarlo per una visita. Rimase incantato e mi disse: « Oh di’ un po’, allora ti faccio una prefazione e una bella copertina». Con mio grande dispiacere, fece delle macchie, delle cancellature, un ritratto di me con un piccolo berretto malconcio in cui ho l’aria d’essere una anziana di almeno 30 o 40 anni, che al momento trovo molto brutto e non mi assomiglia per niente. Ero terribilmente delusa per la poca cura che mise a fare ciò, mentre io gli avevo portato un lavoro impeccabile. Più tardi, quando sarà progettata una edizione illustrata del Voyage, Céline penserà ai miei disegni. Ma vi rinunciò poiché non avremmo compreso il perchè avesse chiesto a una ragazzina di 12 anni di leggere e illustrare il suo romanzo. Credo che sia stato il sospetto di un possibile turbamento che l’ha fatto desistere.
Dimenticai rapidamente questi disegni che in fondo non erano molto importanti per me. Lessi Mort à crédit molto tempo dopo la sua uscita, ma non i pamphlets che non mi interessano, anche se mio padre adottivo, che condivideva alcune idee antisemite del suo amico dottor Destouches, vi s’immergeva con piacere. Poco prima della guerra, avvertiii un cambiamento nell’atteggiamento di Céline: era diventato diffidente, camminava guardandosi alle spalle come se temesse di essere inseguito, cominciò a dire che forse aveva sbagliato a schierarsi contro gli ebrei. A quell’epoca incontravo Lucette, che viveva con Céline dal 1936, quasi tutti i giorni. La incontravo allo Studio Wacker, Place Clichy, in un grande fabbricato diretto da Boris Kniazef, dove i professori di danza potevano affittare alla giornata o alla settimana, una sala per le lezioni, un pianoforte e anche un pianista che accompagnava i movimenti delle allieve. Prima andavo a ritrarre dei modelli nudi nelle accademie, ma ciò costava molto caro, allora Céline mi disse: «Vai a disegnare le ballerine che lavorano con Lucette.» Ho seguito il suo consiglio. A volte ci raggiungeva nello studio per il piacere di osservare Lucette e le sue allieve. Apprezzava le donne molto giovani, pensava che superata la ventina una donna fosse fisicamente logorata. Amava i corpi modellati dallo sforzo fisico e dal lavoro, resi perfetti dal duro esercizio della danza, sublimati dalla grazia e armonia del movimento. Terminato il corso di Lucette, risalivamo tutti e tre nell’appartamento di rue Girardon a prendere un tè o mangiare qualcosa. Lui non mangiava quasi niente, credo che gli mancassero delle papille, i piaceri del gusto gli erano completamente estranei. Poteva mangiare una sardina e contemporaneamente un grappolo d’uva con un pezzo di plum cake, il tutto in quantità minima, dopo averne sbriciolato la metà, bevendo solamente dell’acqua o del tè. Questa mancanza totale d’attrazione per il cibo lo rendeva quasi pericoloso nello svolgimento della sua professione quando prescriveva delle diete da fame ai suoi pazienti. Non aveva mai abbastanza sarcasmo per i bevitori e mangiatori. Al dispensario era sopranominato «Niente caffè, Niente tabacco, Niente alcool». Questo genere di slogan non piaceva molto a Clichy dove l’alcolismo era un flagello endemico.
Scoppia la guerra. Quando Parigi venne dichiarata città aperta, partimmo in esodo come molta gente, per fare ritorno all’inizio del 1941. Quando ritroviamo Céline, il suo periodo elegante, abiti a tre pezzi, cravatte e bei soprabiti, è terminato; indossa delle pesanti maglie di lana, dei pantaloni di velluto, delle giacche canadesi lise, sicuramente per comodità poiché si sposta su una grossa motocicletta. Non è più addetto al dispensario e, anche se pratica un po’ la medicina, sembra vivere soprattutto dei diritti dei suoi libri. Si sono dette molte cose sull’atteggiamento di Céline e sul suo antisemitismo durante l’Occupazione. Tutti sanno che ha tenuto certi discorsi, che ha fatto pubblicare delle lettere sui giornali collaborazionisti. Non posso giudicare che dal mio punto di vista, e ancora è alterato, perché non potevo confondere il mio amico, dottor Louis Destouches, che amavo molto, e il celebre autore Louis-Ferdinand Cèline che tutto sommato conoscevo molto poco. Ma per me, in quel periodo, appariva meno virulento che durante il periodo dei pamphlets. Lo scrittore era violento perché il suo stile lo esigeva e poteva farsi trasportare dal suo impeto davanti a un foglio di carta, l’amico, per contro, restava immutato, un uomo affascinante, d’una grande dolcezza. Avevo durante la guerra una storia con un giovane ebreo al quale tenevo molto. Portava la stella gialla e non era facile camminare con lui per la strada. Se Céline avesse manifestato davanti a me dell’odio, se si fosse lasciato andare alla minima osservazione offensiva, avrei immediatamente rotto con lui per attaccamento al mio compagno. Del resto, si parlava poco di lui nel quartiere. Riservava le sue diatribe nelle riunioni che si svolgevano nell’atelier di Gen Paul, in cui si esprimeva in pubblico in una maniera molto più veemente. Ma era una violenza da ubriacone, degli scoppi ridicoli ai quali alla fine nessuno attribuiva importanza. Gen Paul ha superato l’epurazione senza troppi danni perché nessuno l’aveva preso sul serio. L’uomo era odioso, ripugnante, sempre pronto a palpeggiare chi indossa una sottana, una bocca sempre pronta a sparlare di chiunque. Sono stata da lui nel suo atelier una sola volta: ho visto la sua piccola corte, almeno dieci persone perdersi in discussioni inutili, le bottiglie di vino rosso dappertutto, la sporcizia. Trovai l’atmosfera insopportabile, non vi sono mai più ritornata.
Un giorno, arrivai come d’abitudine allo Studio Wacker, mi dissero che i Destouches sono partiti: nessuno sa esattamente dove. Restammo per lungo tempo senza notizie; apprendemmo che erano in Danimarca solo dopo la fine della guerra quando il mio padre adottivo ricevette una lettera. È stato così che sono stata la prima, se si esclude sua moglie, ad aver incontrato Céline in prigione.
Ero, all’epoca, in un momento di svolta della mia esistenza; stavo lentamente abbandonando l’illustrazione dei libri per il mestiere di decoratrice. Avevo lavorato alla prima grande esposizione consacrata alla moda dell’immediato dopoguerra. Prima del 1940, l’alta moda era esclusivamente francese e durante i quattro anni dell’occupazione, non era stato fatto nulla in questo ambito. La professione era stata messa a riposo, nessuna presentazione di collezioni, nessuna sfilata e le riviste di moda, che non corrispondevano allo spirito della rivoluzione nazionale petainista, avevano, per la maggior parte, smesso di essere pubblicate. Nel 1945, al fine di rilanciare velocemente questo settore economico capitale, venne organizzata al Louvre una mostra molto importante intitolata « Le téatre de la mode». Gli abiti, creati dai maggiori sarti di allora, erano messi in scena all’interno di scenografie di Cocteau, Douking e Bérard e esposti su dei manichini che avevo disegnato io e di cui curavo l’installazione. Dopo Parigi, l’esposizione girò tutta l’Europa. Andammo a Barcellona, in seguito a Stoccolma, poi a Copenaghen. Sapendo che i Destouches avevano avuto dei guai e che Céline era in prigione, la prima cosa che feci, arrivata in Danimarca, fu di andare a trovare Lucette. La trovai cambiata, molto abbattuta, era stata molto malata: seppi solo più tardi che anche lei era stata imprigionata. Era unicamente preoccupata di Céline, non aveva che un’idea fissa: «Bisogna assolutamente far uscire Louis da là.» In attesa di questa ipotetica liberazione, vorrebbe ottenere un diritto di visita più ampio. Non avevo alcun potere, eppure ho fatto un tentativo presso un certo Guy de la Charbonnière, un ostinato che voleva assolutamente l’estradizione di Céline. Gli chiesi di poterlo incontrare. Per merito dell’esposizione che aveva suscitato molto interesse e degli avvenimenti mondani che aveva provocato, tra gli altri una gran cena presso l’ambasciata di Francia, fui facilmente ricevuta da la Charbonnière. Gli chiesi il permesso di incontrare Cèline, « Non glielo consiglio» mi disse. « Ma se ci tiene veramente le posso far ottenere un lasciapassare.» « Non è tutto, Madame Destouches vorrebbe far visita a suo marito più spesso.» « Che lo veda, poiché non starà ancora qui per molto tempo. Ho chiesto l’estradizione, è imminente, non vi sfuggirà.» Nella sua mente il ritorno in Francia di Céline era una questione di giorni, è per questo che accettò che Lucette potesse fare delle visite più frequenti. Louis le domandò di venire con il gatto Bebert, al quale era molto affezionato, nascosto nella sua borsa. Era un animale eccezionalmente grosso e grande, straordinariamente ricettivo, potrei dire intelligente se non si trattasse di un animale. Capiva e faceva tutto ciò che gli diceva Lucette, non muoversi, mettere la testa nella borsa, non miagolare. Era un gatto veramente prodigioso, realmente molto perspicace, del tutto differente dagli altri gatti che ho conosciuto
Essendo la mia autorizzazione nominativa, mi recai da sola alla prigione. Il regolamento era severo; non ci lasciarono soli, una guardia rimase a sorvegliare in piedi vicino a noi, anche se la sua presenza fu inutile poiché parlavamo in francese, lingua che non comprendeva manifestamente. Rimasi sconvolta quando Céline apparve. L’uomo che aveva lasciato Parigi era ancora giovane: ora davanti a me mi trovavo un uomo invecchiato che dimostrava 20 anni di più della sua età. Fisicamente era molto dimagrito, debole, curvo quasi piegato in due. La cosa più impressionante era la sua bocca, aveva perduto i denti; prima aveva una dentatura molto bella, un sorriso splendente. Psicologicamente appare triste, ansioso, non capisce perché si trova rinchiuso, e soprattutto, ciò che mi ha più colpito era molto impaurito di fronte alla guardia, ritirando la testa tra le spalle come se temesse d’essere picchiato ad ogni istante. L’impressione generale era quella di un animale preso in trappola. Al termine della visita mi sussurrò velocemente il nome di un certo numero di persone che avrei dovuto incontrare per suo conto a Parigi. Nella sua mente avrebbero dovuto testimoniare in suo favore al processo in seguito alla sua estradizione. Ne riparlai con Lucette; poiché durante la visita non avevo potuto prendere appunti, mi dette degli indirizzi. Appena in Francia incontrai queste quattro persone. Tutti mi dissero la stessa cosa, avrei potuto credere che si trattasse di attori che ripetevano una parte a memoria: « Ma perché si mischia in questa faccenda? Non sono affari suoi, si tenga lontana da questa storia». Uno di questi, che avevo incontrato nella sua galleria vicino alla Madeleine, mi prese dalle mani il foglio sul quale avevo annotato il suo nome e lo bruciò nel posacenere. Nessuno accettò d’intervenire nonostante Céline li considerasse dei veri amici: mi disgustarono. Bisogna ricordare, senza volerli assolvere, che eravamo nel 1946, l’epurazione è ancora molto vicina, l’atmosfera è di diffidenza assoluta. Si temeva di avere dei guai, di rischiare la propria posizione, semplicemente di compromettersi. Scrissi a Lucette la quale aveva paura che le sue lettere venissero lette e allora usammo dei codici molto puerili: Louis diventò Henri. Poi, molto fortunatamente, Céline venne scarcerato e autorizzato a risiedere in Danimarca. Dalla sua scarcerazione sarà regolarmente in corrispondenza col mio padre adottivo. Da Korsor, dove si rifugiò presso il suo avvocato Mikkelsen, domandava instancabilmente delle cartoline di Clichy, nonostante non ci fosse niente di meno pittoresco di questa periferia, ma viveva nella nostalgia di Parigi, della sua città.
Dopo il ritorno dei Destouches in Francia e la loro sistemazione a Meudon, li abbiamo visti regolarmente fino alla morte di Céline, mio padre adottivo più spesso di me poichè lavoravo e viaggiavo molto. Con Bonabel, e malgrado il carattere difficile di Céline, ci fu una lunga storia d’amicizia che in trent’anni non ha conosciuto un contrasto. Era basata su una lealtà di compagni d’armi, un grande pudore da entrambe le parti e una grande modestia da parte del mio padre adottivo che non pubblicizzò mai la loro relazione. Bonabel, dopo aver lavorato nella pubblicità, divenne venditore di dischi in rue de l’Odeon e quando Lucette aveva bisogno di rinnovare le musiche delle sue lezioni di danza la andava a trovare con un assortimento di registrazioni e lei prendeva ciò di cui aveva bisogno; era un pretesto, se gliene fosse servito uno, per queste visite. Dovevamo annunciare le nostre visite per telefono poiché Céline era diventato molto diffidente. Ci apriva attorniato dai suoi cani, una muta di molossi che ululavano in maniera terrificante quando entravamo, ma che ubbidivano perfettamente al loro padrone. Contrariamente alla leggenda di misantropo che accompagna la fine della sua vita, eravamo sempre accolti calorosamente. Viveva e scriveva al piano terra della casa, in mezzo ad un enorme confusione, in un disprezzo totale per l’immediato. Aveva una cassa del sapone piena di manoscritti con sopra dei libri accatastati, gli oggetti più disparati un po’ dappertutto o dei piatti abbandonati sui mobili eterogenei che erano finiti lì non si sa come. Qualche stampa anatomica attaccata con puntine al muro che rappresentavano l’unico sforzo di decorazione. Niente radio né più tardi la televisione, non ne voleva assolutamente sapere. I piani superiori erano stati adattati a studio di danza ma non vi saliva mai, vedeva solamente passare le allieve alle quali a volte apriva la porta. Si udiva insistentemente la musica e i rumori ritmati dei passi di danza sopra le nostre teste, cosa che lo disturbava moltissimo a causa delle emicranie di cui soffriva sempre più col passare degli anni; sopportava ciò per amore di Lucette alla quale era molto preoccupato di far piacere. Era attorniato da animali, soprattutto gatti e dal pappagallo Coco che era capace di fischiare meravigliosamente “J’ai du bon tabac” oppure “ Les steppes de l’Asie centrale” . In realtà era un animale molto comune, triste, che da un momento all’altro lanciava qualche strillo confuso, ma Céline lo amava molto, scriveva con Coco vicino o appoggiato sulla sua spalla. Durante questi incontri si dilungava, si lanciava in lunghi monologhi. Era terribilmente pessimista se evocava il genere umano in generale, ma, quando prendeva di mira delle persone che conosceva, diventava di una comicità estrema con un vero dono da caricaturista. Una volta lo accompagnai ad un pranzo presso il suo amico il professor Taillefer che possedeva un casa da gran signore. Sul momento aveva fatto mostra d’una cortesia e di una gentilezza perfette. Ma aveva memorizzato tutto e in seguito descrisse il pranzo con una cattiveria, una virulenza, un gusto del dettaglio preciso e micidiale, straordinari. Era feroce con questi uomini di mondo, soprattutto nei confronti delle donne non più giovani che stroncava con due o tre frecciate assassine. Lo ascoltavamo affascinati. Con Bonabel riusciva a fare delle conversazioni perché erano entrambi appassionati di storie di cavalleria. Mio padre adottivo, che era un autodidatta di grande cultura, si era molto documentato su questo argomento. Si ritrovava in queste discussioni l’eco della Leggenda del re Krogold, alla quale Céline teneva moltissimo e che chiamava «Ma jolie Legende». Tra l’altro aveva un progetto di scrittura su questo tema medioevale: un giorno, appreso che andavo a Londra, mi chiese di provare di trovargli la riproduzione di un quadro raffigurante una donna con un ermellino. Ne aveva bisogno per rammemorarsi di certi particolari al fine di scrivere sul personaggio.
Nel 1958 mi propose una seconda serie d’illustrazioni. Da molto tempo voleva fare pubblicare in un solo volume gli argomenti di balletti sparsi nella sua opera e che per lui erano molto importanti, più che per i lettori che in generale li trovano noiosi. Sperava anche che prima o poi Lucette sarebbe stata chiamata ad allestire uno di questi balletti; credeva che il libro avrebbe rilanciato il progetto. Era stato contattato Roger Wild, un illustratore molto noto, che aveva già realizzato nel 1944 qualche tavola per Foudres et Flèches. Ma Céline trovava che deformasse troppo i corpi, insistette con me e mi disse: « Voglio che siano graziose, delle ballerine.» Si ricordava dei disegni che avevo fatto all’académie Wacker, che osservava con molta attenzione e piacere. Gallimard non era molto entusiasta, ma a forza di essere tormentato, finì per accettare. Céline sapeva esattamente ciò che voleva e attribuiva grande importanza al lavoro che stavo realizzando. Sebbene normalmente non venisse quasi mai a Parigi, venne tre o quattro volte nell’arco di qualche settimana in rue de l’Odeon nel mio atelier al fine di vedere gli schizzi. Queste visite non passarono per nulla inosservate: arrivava coperto di maglie, di sciarpe, avvolto in una immenso mantello di panno nero che gli arrivava fino ai piedi, un genere di abbigliamento che si trovava nei reparti di abbigliamento per ecclesiastici o nei negozi della rue Saint Sulpice e che nessuno avrebbe pensato di indossare, tranne qualche anziano parroco. Quando il libro uscì ne rimase molto contento, anche se avrebbe preferito una stampa di miglior qualità e un formato più grande.
È morto in estate, il giorno stesso in cui terminò Rigodon, il suo ultimo libro. Soffriva sempre di più e forse non ha trovato in se stesso la forza d’andare oltre. Lucette mi annunciò la notizia al telefono. Al funerale c’era pochissima gente, appena una decina di persone, Gallimard, Marcel Aymé, Colette e altri che non conoscevo. Il corteo è partito dalla casa, non siamo passati in chiesa. Il tempo era incerto: un’alternanza di sole e acquazzoni, al cimitero ha piovuto.
Ho viaggiato molto, frequentato molti ambienti, incontrato tantissime persone, ma Cèline è, senza alcun dubbio, l’essere più straordinario, più singolare, più attraente che ho avuto la fortuna d’incontrare nella mia vita. Non ho conosciuto nessuno con una visione tanto precisa, una analisi così rapida del mondo che lo circondava. Bisognava sentirlo profetizzare sulla pubblicità, l’automobile, sull’abuso di cibo e alcol, l’abbrutimento delle vacanze di massa, con ferocia, ma anche con un dono della veggenza e delle premonizioni sorprendenti. Negli anni ‘50 quando la televisione non era che un fenomeno di fatto marginale diceva già: «Il cinema è fottuto, non resterà che la televisione.» L’espressione di «Céline veggente» è stata talmente usata che è divenuta quasi banale, ma resta di fatto esatta. Anche negli ambiti che gli interessavano poco aveva delle folgorazioni straordinarie che vedo confermate nel tempo. Non è il suo comportamento a volte pittoresco che lo rendeva unico, ma la struttura della sua mente, un tipo di rapidità d’analisi, dei lampi che non ho riscontrato in nessun altro. Non amo le espressioni magniloquenti, ma il termine di genio non mi sembra esagerato se riferito a lui.
Eppure, più che l’essere eccezionale, più che lo scrittore unico, è l’amico premuroso e gentile, dalla sensibilità quasi femminile che ricordo. Il nostro rapporto è stato caloroso, ma senza mai la minima confidenza; tutto era implicito, senza pettegolezzi inutili né sentimentalismi. Sapevamo, ciò bastava.


(Traduzione di Gilberto Tura)